Recensione: Out of this world

Di paolinopaperino77 - 7 Ottobre 2002 - 0:00
Out of this world
Band: Europe
Etichetta:
Genere:
Anno: 1988
Nazione:
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89

Dopo lo straordinario e meritatissimo successo commerciale di “The final countdown”, gli Europe dovettero affrontare un pubblico ed una critica con aspettative altissime e furono “costretti” a sfornare un album degno del proprio predecessore, contenente cioè melodia, energia e buona scrittura. Il compito non fu dei più facili, visto che il chitarrista John Norum non era più della partita, ma Joey Tempest non si perse d’animo e forte di una certa esperienza individuò presto il più adeguato sostituto e coinvolse nel progetto Europe il chitarrista Kee Marcello, meno duro forse di Norum, ma dotato di buona tecnica e di grande facilità melodica. Nel corso degli ultimi anni gli Europe avevano subito alcuni rimpasti nella sezione ritmica ed avevano acquisito il tastierista Mic Michaeli nell’organico definitivo (scelta quantomai azzeccata visto il contributo dato da quest’ultimo al successo di “The Final Countdown”) e un’ulteriore cambiamento di formazione avrebbe forse potuto causare un nuovo spostamento della direttrice musicale. Questo effettivamente accadde, almeno in una certa misura, ma Marcello non ne fu l’unico responsabile, dato che le redini del gruppo restarono saldamente nelle mani di Tempest. Il nuovo chitarrista, comunque, si integrò presto e bene nell’alchimia della band, contribuendo così alla riuscita dell’album di cui qui parliamo: “Out of this world”.
Il suono del disco riprese per certi versi quello del predecessore, specie relativamente all’uso delle tastiere e l’abbondanza di linee melodiche cariche, piene ed orecchiabili e per quanto riguardò pulizia e la qualità compositiva. Se “The final countdown” unì orecchiabilità, magniloquenza ed energia hard rock ad un approccio piuttosto europeo alla musica, “Out of this world” guardò più all’America ed all’AOR, ma non risultò mai, assolutamente mai, banale e scontato. Il grande pregio di questo album fu costituito dalla maturità compositiva e tecnica del gruppo, evidente negli arrangiamenti e nella pulizia delle esecuzioni (gran merito va anche alla produzione) e nella qualità dei brani, decisamente ben strutturati ed efficaci, vista la loro elevata capacità di essere assimilati, pur rimanendo raffinati.
Gli Europe dell’88 si dimostrarono distanti dall’ingenua irruenza degli esordi, il suono duro e travolgente dei primi due dischi fu trasformato, arricchito e raffinato, facendo emergere con prepotenza il lato melodico ed orecchiabile del gruppo e del suo leader Joey Tempest. Ai puristi del metallo senza compromessi questo forse non andò e non andrà mai giù, ma gli Europe scelsero di evolversi in questa direzione (non lo fece forse anche Blackmore?) ed il successo gli arrise, eccome. Quel che importava era comunque che le composizioni non scadessero nella banalità e questo gli Europe lo garantirono in ogni loro disco e il presente album non fece certo eccezione.
Facendo riferimento alle canzoni ed all’ascolto che di queste si può fare oggi, i punti di forza del disco sono “Superstitious”, “Ready or not” e una nuova versione del classico “Open your heart”. Questi brani, oltre ad essere diventati i singoli trainanti dell’album, si dimostrano caratterizzati da linee melodiche vocali molto belle ed orecchiabili, cantate de un Tempest potente, pulitissimo ed inarrestabile, mentre Marcello sa sfornare assoli efficaci e tecnicamente validi, anche se forse meno affascinanti di quelli di Norum. Le tastiere di Michaeli forniscono sempre il giusto supporto al suono e lo caratterizzano enormemente, contribuendo però così a rendere il disco “troppo” anni ’80 e limitando un po’ la sua digeribilità a chi cerca suoni più grezzi e ruvidi. “Open your heart” nuova versione si dimostra essere una ottima ballata, ben strutturata e coinvolgente anche se, personalmente, trovo la versione originale più incisiva a livello ritmico e quindi più riuscita. Gli altri brani del disco sono forse “minori” poiché meno stratosferici, ma ci si trova comunque sempre davanti a grandi canzoni, basti ascoltare l’hard rock con reminiscenze quasi rainbowiane nell’uso dell’hammond e nel riff di chitarra di “Never say die”, oppure “Let the good times rock” e “Tower’s calling” dove Marcello ci regala riff che sembrano usciti dalle mani del Richie Sambora di “New Jersey”. Coinvolgente anche “Just the beginning not the end” dal ritornello melodico e catchy. In “Lights and shadows” il gruppo gioca invece la carta di un suono di tastiera più originale e di una ritmica meno ordinaria, conferendo un certo fascino alla canzone. Le note di chiusura sono affidate al lento “Tomorrow”, che a dire il vero, non entusiasma più di tanto, risultando essere una ballata ben suonata e cantata, ma non certo memorabile nelle linee melodiche, cosa strana visti i personaggi coinvolti. Per quanto mi riguarda, ritengo “Out of this world” un buon disco, non così memorabile come “The final countdown”, ma caratterizzato da un buon lotto di belle canzoni e da una prestazione elevata di tutti i musicisti. Credo che tutti gli amanti del rock melodico dovrebbero cercarlo e farlo proprio, perché merita veramente.

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