Recensione: Paleopneumatic

Di Gabriele Pintaudi - 5 Aprile 2016 - 10:00
Paleopneumatic
Band: Dissona
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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85

Alcuni di voi, molti spero, avranno avuto la fortuna di ascoltare il debut album, nonché self-titled degli americani Dissona. Si tratta di un disco non facile da metabolizzare, condito di varie influenze, originale, a tratti epico, eccentrico e in buona parte melodiosamente oscuro. Per il sottoscritto è stato rivisitato e rivalutato solo recentemente, anche grazie all’uscita, dopo circa quattro anni, di questo nuovo Paleopneumatic.
Difficile davvero parlare della band e forse per questo ho accettato con me stesso la sfida di recensire questo nuovo lavoro. Il livello tecnico è molto alto, ma tale capacità è messa al servizio di un’assoluta vena creativa, così energica e pulsante che, a un primo approccio, i fatica a capire ciò che gli statunitensi vogliono trasmetterci. Con Paleopneumatic è stato fatto qualche passo avanti a livello di accessibilità rispetto al debutto, cercando di rispettare in buona parte la forma canzone, ma senza nemmeno perdere di imprevedibilità e oscura maestosità. Non ci si può distrarre, perché ogni frammento di nota ha qualcosa da dire e vuole dirla a tutti i costi; desidera essere ascoltata e per l’ascolto è necessario, soprattutto in questo caso, rimuovere ogni pregiudizio.
Entriamo nel vivo con “Another sky” e già veniamo travolti dalle potenti e nervose chitarre seguite da tastiere solenni. Il vocione del tenebroso David Dubenic è un altro dei punti forti dei Dissona, con il suo timbro epico, ma che sa anche essere aggressivo e tagliente quando serve. La canzone risulta divisa in due parti, la prima mette in evidenza il lato più istintivo e animalesco, probabilmente anche irrazionale, dell’essere umano e sfocia in un ritornello esplosivo (che però non ritorna). La seconda parte ci mostra un suono più cibernetico, in cui vi è una dualità vocale narrata dal growl computerizzato e artificiale, in contrasto con parti più dilatate e intimiste. Altra nota di merito la produzione (già ottima nel primo disco, cosa non da poco per essere un debutto): i suoni dei vari strumenti risultano ben distinti e puliti, nonostante la voluta pastosità di certi passaggi. Difetti del brano? Non si può parlare di difetti in questo caso. È un racconto, ci parla di noi stessi, e lo fa con spudorato realismo e senza romanzare troppo. Ci troviamo di fronte a un’opera artistica che vuole dire qualcosa, bisogna ascoltare e capire cosa. Forse avremmo preferito godere di qualche assolo superveloce in meno e un finale vocale simile alla conclusione della prima parte, ma va bene così. Vedremo presto che per capire i Dissona è bene non aspettarsi nulla. Dopo vari ascolti, “Another sky” sembra scorrere abbastanza fluidamente, attraverso un labirinto di note al loro posto. Anche lì dove sembrava esserci uno spigolo, un’asimmetria, una rigidità, adesso si rivela essere integrata e armonica. In effetti l’armonia di questi Dissona, sta nell’essere totalmente disarmonici, almeno all’apparenza.
Passiamo alla successiva “Fire Bellied”, nome che vuole dire tutto. Se chiudiamo gli occhi veniamo, volenti o nolenti, catapultati in mezzo a una sorta di battaglia, una vera e propria guerra musicale imponente, non proprio nello stile medioevale epico cui Rhapsody Of Fire, Blind Guardian o i più moderni Orden Ogan ci hanno abituato, ma qualcosa dal sapore più realistico, più sanguinoso, più violento e vicino ai giorni nostri. Qualcosa che viene dalla profondità dell’inferno, senza speranza, senza respiro, senza possibilità di fuga. Restiamo travolti, dunque, da una marcia bellica a tutti gli effetti per otto minuti che sembrano volare, lasciandoci, almeno inizialmente, completamente storditi. Prendiamo fiato con “Outside The Skin”, una sorta di ballad in cui ci si aspetta una qualche esplosione improvvisa, e invece non accade niente del genere, per fortuna! sarebbe stato troppo. I Dissona non si divertono ad essere originali a tutti i costi, o eccessivi, e qui lo dimostrano. Infatti questa è la prima canzone lenta e d’atmosfera che abbiano partorito, incluso il debutto. La linea vocale e melodica risulta apparentemente in contrasto con l’elettronica della strumentazione, creando un’atmosfera in crescendo che ci ricorda un po’ i vecchi Pain Of Salvation.
Breach” arriva come una mazzata inaspettata (forse), portando agonia, rabbia, dolore, e insieme queste emozioni formano un’espressione strumentale che ha ben poco di lineare. L’ascolto risulta arduo, soprattutto se non si è perfettamente in linea con le sensazioni che il pezzo vuole trasmettere. Ogni strumento, come la voce, è li per portarci dentro noi stessi, dentro la nostra assenza di controllo e dentro le nostre paure più profonde. Passivamente “subiamo” emozioni che, in realtà, non vorremmo. Quindi come si può valutare una traccia del genere? Bella? Brutta? Direi che “Breach” è una brutta traccia, non ha assolutamente niente di melodico e niente di lineare, eppure anche questo è incluso nell’ombra della nostra anima. Anche questa bruttezza, questa brutalità, fa parte del lato oscuro di ognuno di noi.
Si entra in un’altra dimensione, più d’atmosfera, con “Totality”. Anche questa volta la traccia non somiglia a nulla di quanto è stato fatto prima, e mette in evidenza un altro aspetto più vicino al black e al doom, che al progressive più classico. Ma qui, davvero, parlare di generi ha poco senso. Un growl molto tetro e cavernoso è seguito da un malinconico e teatrale ritornello dal cantato operistico, che, udite udite, si ripeterà per una seconda volta in versione più esplosiva sul chiudere della traccia. È da sottolineare come i Dissona, insieme a poche altre band (Opeth?), giochino molto sui forti contrasti, creando prima momenti d’atmosfera dilatata, e poi momenti molto più energici e rombanti. “Totality” è, a mio avviso, la traccia migliore del disco.
Colpiscono immediatamente le chitarre taglienti di “Odium”, brano che per la sua struttura ricorda in parte “Another Sky”. Anche questa sembra divisa in due parti, e sembra che voglia creare un nuovo genere che mescola progressive a un retrogusto vagamente orientaleggiante per l’uso di alcuni strumenti. Il difetto della traccia è che, forse, si intuisce una potenziale componente di pathos simile alla precedente “Totality”, ma che non esplode a dovere, per poi dissolversi sul più bello riprendendo il tema melodico iniziale. È una gran bella traccia, ma poteva essere un capolavoro. Dopo la quieta “Anastomosis” (solo pianoforte), che ricorda un po’ certi intramezzi scuola Shadow Gallery, è la volta della successiva “Lysis”, un’altra occasione mancata. Mi ci sono voluti vari ascolti per giungere a questa triste conclusione. Il brano risulta ben compatto, con una linea melodica non troppo difficile da seguire, ma che non decolla mai. Ha senso parlare di decollo per i Dissona? Forse si. Per “decollare” non intendo il ritornello vincente alla power metal che resta impresso, bensì uno sviluppo che crei uno di quei chiaroscuri emozionali, punto forte della band, di cui parlavo prima. Qui il tutto risulta troppo omogeneo e un po’ piatto, anche strumentalmente, e la linea vocale non convince completamente. Verso la fine il brano arriva la trasformazione inaspettata di cui parlavo, ma non ha la stessa capacità di colpire come accade nei pezzi precedenti, rivelando una lieve sensazione di incompiutezza. Ci rifacciamo alla grande, comunque,c on il brano probabilmente più orecchiabile del disco, “The Last Resistance”, che ha dalla sua una particolare capacità di trasporto emotivo, questa volta senza pretendere di farci concentrare eccessivamente. Possiamo alzarci senza mettere pausa, bere un po’ d’acqua, e risederci. Grazie Dissona, era ora.
Chiude la malinconica “Sunderance”, un’altra perla, con le sue immagini dilatate e non nervosamente labirintiche. Una voce lirica femminile, che si mescola alla semplice linea melodica del nostro talentuoso cantante, danno vita alla poetica fase conclusiva di questo particolarissimo lavoro.
Voglio concludere con alcune considerazioni più generali. Ci troviamo di fronte probabilmente a un disco che, al di la dei gusti e del suo valore, è molto personale, sperimentale e coraggioso. Un’opera d’arte a tutti gli effetti, nella quale si evidenzia la volontà di volere andare oltre, di trasformare le emozioni in note senza partire da strutture progressive fisse. Quali sono queste strutture fisse? Ad esempio voce pulita, melodie accattivati, ballad a tutti i costi, suite finale, ritornelli in bella vista, parti strumentali lunghe e/o complesse, ecc. Mancano, fortunatamente, cliché ben noti che stanno facendo ormai il loro tempo. Pain Of Salvation, Leprous, Mechanical Poet, e pochi altri, in un certo senso hanno creato un nuovo modo di guardare al progressive, spostando la lancetta dalla parte più moderna, emozionale, irrazionale, meno classica e originale. I Dissona possono fare benissimo parte di queste band innovative, in un panorama in cui il classico progressive metal melodico sta pian piano lasciando il posto a quello più vario e ricco di influenze prese da altri generi. Si parte dall’ispirazione di fondo e poi la musica fa da sottofondo a queste sensazioni. Non è al contrario. La musica è al servizio dell’anima che ha da dire qualcosa e quando lo fa non sempre accarezza. Rispetto al debutto è stato fatto qualche passo avanti? Si e no. Nel senso che, dal punto di vista dell’omogeneità, delle atmosfere e dell’ambizione, potrei dire di sì; tuttavia, proprio questa ambizione ha creato qualche squilibrio dal punto di vista compositivo, se proprio vogliamo trovare un difetto. Per adesso è tutto.

 

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