Recensione: Panopticon

Di Stefano Usardi - 20 Febbraio 2019 - 10:00
Panopticon
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2019
Nazione:
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78

Prima di ascoltare “Panopticon” non conoscevo i Metal Inquisitor. Spulciando la bio del gruppo scopro che il quintetto tedesco è attivo dalla fine degli anni ’90 e, da allora, ha sfornato altri quattro album, più vari demo e singoli. Sempre dalla bio scopro che i Metal Inquisitor fanno un heavy metal di stampo classico. Ebbene, mai definizione fu più corretta! I nostri non fanno alcun mistero del loro amore incondizionato per il periodo d’oro della NWOBHM e mescolano in parti uguali Saxon e Judas Priest, aggiungendo di tanto in tanto corpulente spruzzate di Iron Maiden e guarnendo l’impasto con un pizzico della compattezza arcigna e un po’ cafona tipicamente tedesca. Prima di proseguire parliamo dell’elefante nella stanza: la più o meno conclamata mancanza di originalità di lavori come questo, che mostrano fin troppo spesso il fianco a critiche riguardanti immobilismo stilistico, mancanza di idee originali, diffusione di malattie infettive, peste, cavallette e chi più ne ha più ne metta. È tutto vero: qui di originalità ce n’è ben poca, i Metal Inquisitor non rischiano quasi nulla e restano sempre nell’acqua bassa, a due metri dalla riva, ma se è vero che i nostri baldi tedeschi guardano essenzialmente alle vecchie glorie del metallo come faro ispiratore senza tentare azzardi potenzialmente controproducenti, è altrettanto vero che le nove tracce che compongono “Panopticon” suonano comunque fresche, dinamiche e altamente trascinanti. Merito di un piglio propositivo e un andamento adrenalinico e decisamente incompromissorio, il tutto avvolto da una produzione efficace, pulita e graffiante il giusto, per stare lontani da un suono fintamente vintage ma senza quelle velleità bombastiche che, alla fine, non avrebbero fatto altro che appesantire il tutto. Melodie maschie e ritmi arrembanti dominano la scena per tutti i tre quarti d’ora scarsi di “Panopticon”, creando un vortice sonoro piacione e furbetto finché si vuole ma anche dannatamente coinvolgente, in cui le chitarre dominano la scena sorreggendo una voce squillante e beffarda e la sezione ritmica pompa ininterrottamente dando corpo a canzoni semplici, dirette e rocciose. Dall’iniziale “Free Fire Zone” alla conclusiva “Discipline and Punish” si assiste ad una carrellata di riff che sembrano usciti dagli anni ’80, rielaborati e rispolverati per permettere ai nostri di mettere in mostra tutta la loro verve con una serie di inni facilmente memorizzabili, cavalcate impattanti, marce indomite e guarnendo il tutto con assoli vorticosi, martellate ritmiche insistenti, duelli di chitarra ad ogni piè sospinto e fraseggi carichi di pathos. Ogni tanto si sente, e a volte neanche in modo tanto velato, un passaggio che ricorda pesantemente i gruppi anzidetti (giusto per dirne due a caso, a un certo punto di “Change of Front” sembra davvero di sentire i Saxon, mentre nella sezione solista di “Trial by Combat” riecheggiano le chitarre dei Maiden), ma il tutto viene shakerato nel calderone dei tedeschi che, per parte loro, ci aggiungono entusiasmo a profusione e un amore sincero per un certo modo di intendere il metallo pesante. Dopo aver dato un’ascoltata ai loro precedenti lavori, inoltre, devo dar atto ai nostri di aver suonato in questo modo anche molto prima che il metallo anni ’80 tornasse di moda, per cui le malignità riguardanti una furbata commerciale da parte dei cinque tedeschi possono tranquillamente nascondersi là in fondo, nell’angolino dietro la lavagna.
Tirando le somme, devo dire di essere rimasto molto soddisfatto dall’ascolto di “Panopticon”: i Metal Inquisitor hanno confezionato un album carico, esaltante e giustamente cafone, che nonostante un respiro profondamente debitore della scena storica suona comunque tutt’altro che stantio, assicurando quarantatre minuti di salutari ed eroiche mazzate ad ogni nerboruto defender che si rispetti.

Un’ultima nota a margine, di carattere squisitamente aneddotico: se qualcuno se lo fosse chiesto, il titolo dell’album e la copertina dello stesso si riferiscono al carcere ideale prospettato dal filosofo e giurista britannico Jeremy Bentham.

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