Recensione: Panopticon

Di Silvia Graziola - 3 Marzo 2011 - 0:00
Panopticon
Band: Isis
Etichetta:
Genere:
Anno: 2004
Nazione:
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85

Gli Isis nascono nel 1997 a Los Angeles, in California e iniziano a farsi strada nell’ambiente della musica pubblicando nel 1998 la loro prima demo e l’EP Mosquito Control e, l’anno successivo, il 1999, dopo diversi cambi di formazione, i due EP The Red Sea e Sawblade.
Complice il loro particolarissimo stile a cavallo tra doom e sludge, ancora molto grezzo e “doomy”, la band inizia a raccogliere consensi negli ambienti underground, festeggiando nel 2000 l’uscita del primo full length, Celestial, e dell’EP SGNL>05 un anno dopo. Il 2002 vede la pubblicazione di Oceanic, che porta con sé la definitiva consacrazione della band da parte della critica. I tempi si dilatano e vengono date alle stampe due live, Live 01 e Live 02, seguiti dal terzo album in studio: si tratta di Panopticon.
 
Non si può parlare dell’album senza fare prima una breve digressione sul protagonista principale dell’opera. Il Panopticon, letteralmente dal greco che “fa vedere tutto”, è il progetto di un carcere ideale formulata per la prima volta nel 1799 dal filosofo idealista Jeremy Bentham. Il suo scopo era quello di progettare un edificio, usando alcuni accorgimenti architettonici, che desse la possibilità a un guardiano di tenere sotto controllo in ogni istante tutti i detenuti, senza dar loro né la possibilità di sapere se fossero o meno sorvegliati, né di entrare in comunicazione con il vicino di cella. Secondo Bentham, l’incertezza che avrebbero avuto i carcerati sull’essere o meno controllati in un determinato momento, avrebbe generato una sorta di autodisciplina dei prigionieri, inducendoli a tenere un comportamento corretto in ogni momento, dettato dalla paura di essere colti nell’atto di infrangere le regole ed essere puniti.
Sostanzialmente il Panopticon era costituito da due strutture: una costruzione periferica ad anello e da una torre al suo interno. La costruzione esterna era adibita a celle per i prigionieri e aveva la forma simile ad una ciambella cava al suo interno, dove le singole celle erano delimitate da muri paralleli ai raggi del cerchio. Ogni cella era dotata di due grandi finestre, una affacciata sull’esterno ed una sull’interno, che permettevano alla luce solare di attraversare completamente la cella e, in un’epoca in cui non esistevano né telecamere né tecnologie affini, il contrasto generato tra la figura umana in essa rinchiusa e la luce avrebbe facilitato l’individuazione della persona.
La torre interna che si ergeva dentro il “buco” della “ciambella”, era invece progettata per la sorveglianza ed era dotata di grandi finestre affacciate sulle celle e di serrande che permettevano ai sorveglianti di vedere senza essere visti.
Bentham nella sua vita non riuscì mai a realizzare il suo progetto; questo compito fu svolto dai suoi successori e fu ritenuta un’idea tanto valida da avere ancora oggi diversi penitenziari costruiti sul modello del Panopticon. Gli scritti di Bentham, in modo particolare il suo libro The Panopticon Letters, influenzarono diversi importanti filosofi che studiarono ed approfondirono il progetto dell’utilitarista inglese. Tra questi spiccano Michel Foucault con Sorvegliare e Punire: Nascita della prigione nel 1973, Howard Rheingold con The Virtual Community del 1993 ed Alex Steffen con What Happens when tecnology zooms off the chart? Singularity and it’s meaning del 2002.

Non desti dunque stupore se, una volta aperto il libretto, alcune citazioni di questi autori prendono il posto dei testi ed hanno la funzione di guidare l’ascoltatore attraverso questo concept.
Il Panopticon a cui fanno riferimento gli Isis non si limita al carcere: numerosi possono essere i significati; viviamo in una quotidianità, seguiti e sorvegliati, con tutte le conseguenze che questo comporta e l’artwork del disco, con la sua veduta aerea di una città spiata dall’alto sembra suggerire anche questo.

Panopticon è un’evoluzione delle sonorità e dell’attitudine del concept precedente, Oceanic, con cui condivide la formazione della band. L’immediatezza dei suoni ruvidi e grezzi del disco precedente ha lasciato il posto a soluzioni più raffinate e cerebrali, ripulendo ed ingentilendo i riff, le distorsioni ed il cantato, senza tuttavia privarli della loro efficacia, né intaccare le sonorità e le attitudini tipiche della band.
Gli Isis scelgono la strada più difficile per far arrivare al pubblico la trama del concept, negando i testi sul libretto e stravolgendo i canoni: la voce di Aaron Turner, con il suo timbro rauco tipico del cantato hardcore, è trasformata in un vero e proprio strumento che resta silenziosamente nelle retrovie, mentre la batteria di Aaron Harris è in primo piano ed è sempre presente, scandendo rumorosamente il tempo, soprattutto nelle parti più distese.
Alla musica, intesa con il suo significato più stretto, è affidato il compito più complicato, ovvero far comprendere ed arrivare il significato del concept all’ascoltatore senza contare sull’aiuto delle parole. Per questo motivo Panopticon è un carico enorme di stati d’animo, di forza, speranza, angoscia, paura… tutto è racchiuso e rinchiuso in questo disco, tutto è in contrasto, ed allo stesso tempo complementare: i riff aggressivi ed ossessivi s’infrangono in parti ampie, dilatate, melodiche, mentre i riff pesanti e distorti di chitarra si trasformano in arpeggi.
Se da un lato la desolazione e l’impotenza del singolo di fronte a cose che non può comprendere  né modificare è comunicata all’ascoltatore attraverso suoni distesi, ampi e permeati da un vago senso di inquietudine, dall’altro lato la claustrofobia della reclusione e la sensazione di essere privati delle vie di uscita viene resa da suoni ossessivi, cupi, dove le poche linee di cantato sono più affini a grida di dolore che a parole.

Per descrivere meglio la musica degli Isis possono essere citate diverse band: vi sono i suoni dilatati, opprimenti e le ritmiche ampie ed arpeggiate dei Pelican e dei Godspeed You! Black Emperor, le atmosfere cupe e claustrofobiche dei Neurosis, unite al cantato di gruppi come Kongh e Capricorns.
L’album inizia con il riff rabbioso di So Did We, primo dei sette brani con cui è suddiviso l’album e custode, con i suoi rapidi cambi di scena, di uno dei momenti più intensi del disco. Gli Isis giocano in Backlit con l’ascoltatore come il gatto con il topo, lo rilassano con serpeggianti riff per poi assalirlo con muri di suono; il lieve tocco di In Fiction e la sua gentilezza quasi inquietante strizza l’occhio all’intro che in Oceanic era quello di Weight, con il suo fascino ipnotico, e si tuffa nuovamente nella calma iniziale di Wills Dissolve, il ponte tra le due metà del disco. Syndic Calls mostra il lato più elaborato degli Isis, dove le linee di tre chitarre si intrecciano e si dividono la parte principale, mentre l’unico brano strumentale, Altered Course, vede come ospite al basso Justin Chancellor dei Tool, dove linee diverse di diversi strumenti ripete fraseggi all’infinito che portano alla chiusura con Grinning Mouths, ottima chiusura per un album che, una volta compreso, sarà davvero difficile da dimenticare.
 

Silvia “VentoGrigio” Graziola

 

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Tracklist:

01 – So Did We
02 – Backlit
03 – In Fiction
04 – Wills Dissolve
05 – Syndic Calls
06 – Altered Course
07 – Grinning Mouths

Formazione:

Aaron Turner: Chitarra, Voce
Mike Gallagher: Chitarra
Jeff Caxide: Basso
Cliff Meyer: Samples, Voce
Aaron Harris: Batteria

Justin Chancellor (Tool): Basso, ospite nella canzone Altered Course

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