Recensione: Peace Out

Di Fabio Vellata - 24 Maggio 2015 - 14:22
Peace Out
Band: Nelson
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2015
Nazione:
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69

Un come back senza dubbio gradito seppur sprovvisto di attimi memorabili quello dei gemelli Nelson, coppia di artisti ormai da ritenersi storici nel panorama rock melodico americano.

Continuatori di una dinastia musicale con pochi eguali nella tradizione cantautoriale statunitense (i due sono figli del celebre country-hero Ricky Nelson), di loro ricorderemo in perpetuo soprattutto il classicone “After The Rain”, debutto targato 1990 che presentava una serie pressoché interminabile di hit e singoli da alta classifica, prodotto di un’epoca in cui era facile, con suoni analoghi, raggiungere grandi vette di popolarità.

Oggi non è più così, pare evidente, tuttavia ai Nelson brothers la voglia di proseguire nello scrivere musica “alla vecchia maniera” non è mai venuta meno, come testimoniato da una discografia non troppo nutrita nei numeri eppure sempre di discreto valore e qualità.
Dopo un buonissimo ritorno nel 2010 con l’ottimo “Lightning Strikes Twice” – contornato da alcune uscite accessorie quali la raccolta di demo “Before The Rain” ed il live album “Perfect Storm” – ci sono tuttavia voluti ben cinque anni per vedere un seguito a quell’eccellente come back, materializzato sotto la guida di Frontiers Records con il nome di “Peace Out”, a compimento di quello che è, a conti fatti, l’ottavo ellepi da studio per i “fratellini”.

Procediamo da un assunto evidente, come già accennato in apertura. La nuova release dei Nelson twins non pare, purtroppo, materiale per cui scomodare paragoni illustri o ipotetiche posizioni da pool di fine anno. Qualche scelta discutibile in sede di produzione dei suoni (fangosi e mai davvero scintillanti come avremmo voluto), alcuni filler di troppo ed un songwriting che solo in qualche caso riesce a fare la differenza, mandano a referto un prodotto di medio valore, interessante per un ascolto disimpegnato e – in ogni modo – gradevole, che però non lascia particolari memorie ne permette al proverbiale “AOR dream” di prendere piede, suscitando quelle sensazioni e quegli stati d’animo assolutamente calorosi che determinano con certezza la caratura più o meno alta di un album di settore.

Buona la partenza, con il divertito movimento di “Hello Everybody”, doppiata dal discreto singolo “Back In The Day” (carino il testo tra il nostalgico e l’ironico) e dalle successive – molto piacevoli – “Invincibile” (riff di chitarra molto riuscito e coinvolgente), “Let It Ride” e “I Wanna Stay Home”, traccia quest’ultima che, almeno nelle battute iniziali, sembra volersi riprendere una fetta di quel “cielo” da sogno anni ottanta che caratterizzava l’opera di debutto della band.
Il resto viaggia con regolarità impeccabile, esaltato da una performance di Gunnar e Matthew senza alcuna sbavatura, epperò, a livello emotivo e di mero coinvolgimento, senza infamia e senza lode.
Come un normalissimo disco di fascia media. Come un Bon Jovi qualunque, alle prese con qualche b-side delle tante lasciate su nastro in carriera.

Ecco quindi come “Autograph”, “What’s Not To Love”, “You And Me”, “Bad For You” e “Rockstar” (praticamente metà album) si manifestino nella forma di brani riempitivi, non certo utili nel determinare il successo di un cd che a lungo andare si dimostra assetato e bisognoso del ritornello davvero incisivo, memorabile, da ricordare. Quel pezzo, o meglio, “quei pezzi” che dopo alcuni anni ti fanno dire “sì, Peace Out dei Nelson, quello in cui c’erano le bellissime…???”

Chiuso dalla lenta e bonjoviana “Leave The Light On For Me”, traccia che potrebbe risultare vincente non fosse che per la solita produzione poco dinamica, il nuovo album dei gemelli Nelson va via così, sulle ali di un melodic rock gentile e mai troppo pulsante, in cui riconoscere sempre l’indubitabile maestria della coppia di artisti americani, non suffragata però, da un qualche effettivo lampo di genio in sede di songwriting e composizione.
Di cui, forse, ricorderemo più agevolmente l’intrigante copertina piuttosto che il reale contenuto in musica.

Un compitino semplice-semplice che non adombra l’ottima stima che da sempre nutriamo nei confronti di Matthew e Gunnar Nelson, ma che, nella fattispecie di una valutazione obiettiva, non consente di andare oltre un applauso di maniera ed una onesta, ancorché meritata, sufficienza di routine…

 

 

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