Recensione: Perfect Man

Di Abbadon - 17 Aprile 2003 - 0:00
Perfect Man
Band: Rage
Etichetta:
Genere:
Anno: 1988
Nazione:
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82

La ormai ventennale carriera dei Rage ha ampiamente dimostrato che Peavy Wagner non sta certo a dondolarsi sugli allori, sia quando la sua carriera andava a gonfie vele, sia quando sembrava ci fossero dei momenti di crisi nella sua grande ispirazione musicale. E se così si può dire nel 2003, altrettanto si poteva tranquillamente affermare nel 1988, quando esce nelle vetrine dei negozi questo “Perfect Man”, quinto album (inclusi gli EP) che la band tedesca aveva prodotto nell’arco brevissimo di 4 anni (1985, “Prayers of Steel” il primo titolo, anche se la band era ancora Avenger e non Rage). Perfect Man conferma chiaramente che i Rage, stavano, con altri gruppi (ad esempio gli Helloween), gettando le basi di un genere metal abbastanza nuovo, ma che avrebbe riscosso grande successo negli anni a venire, ovvero il Power, ovvero un Heavy Metal molto forzato in termini di sonorità e velocità dei pezzi. L’album, la quale copertina presenta per la prima volta il mostro metallico che si ripercuoterà a lungo negli artwork di Peavy e compagni, non è assolutamente uno di quelli che si possono analizzare al primo ascolto, in quanto è nettamente fuori dagli schemi e non lineare nelle sue graffianti sfuriate, e va quindi ascoltato più e più volte per farsi una idea delle sue potenzialità, che sono tutto tranne che da sottovalutare. Musicalmente il disco pecca un poco a livello puramente melodico, anche se si riconoscono chiaramente i canovacci delle singole song, ma le parti più prettamente strumentali sono davvero di gran livello, questo anche grazie alla presenza di musicisti non esattamente di secondo piano, come lo stesso Peavy (che col basso non sempre ha fatto sfracelli nelle sue opere, ma qui lo spinge davvero al massimo), come Manny Smidth, la quale chitarra non teme tantissimi confronti (e si sente chiaramente anche adesso che sta nei Grave Digger), e come Chris Efthimiadis, appena subentrato al posto di Jörg Michael dietro le pelli della batteria, pelli picchiate davvero bene. Vocalmente Peavy si esprime a discreti livelli, anche se non eccezionali, mantenendo una tonalità di voce molto alta e pulita, ma che capita contrasti col suonato (risultando a tratti anche fastidiosa). Altre volte invece la voce si fonde in un alto/basso (degli strumenti), davvero degno di massimo rispetto, anche se il meglio verrà probabilmente coi dischi successivi. Perfect Man è, come tutti gli album degli Ex Avenger, davvero ricco di canzoni, ben 14, tutte con lo stesso filo conduttore (una sola eccezione), ma tutte davvero goduriose, almeno per chi scrive, veloci (e con numerosi cambi di tempo nei punti più impensati, cosa che come dicevo non rende il disco di facile ascolto) e “vive” davvero oltre ogni immaginazione. L’album si apre subito bene con “Wasteland”, canzone non semplice da seguire, specie per i neofiti, dove si notano un eccellente basso e soprattutto batteria, con una chitarra diciamo comprimaria, salvo nell’ubriacante assolo, la cui pecca unica è di essere davvero breve, ma almeno ripetuto in più punti. Leggermente sotto a Wasteland risulta “The Darkst Hour”, molto più cruda e essenziale della precedente, dai riff rocciosi e cattivi, e condotta impeccabilmente dalla Lead guitar di Manny. Terza, ma forse la prima per quanto riguarda il mio giudizio complessivo è la poderosa “Animal Instinct”, aperta da un canto di uccelli che scompaiono in un drumming selvaggio, di potenza dirompente, e spendidamente accompagnato dagli altri strumenti. Perfetta la fusione voce/suonato e canzone che mi piace di più forse perché un po’ più lineare e comprensibile ai primi ascolti delle altre, e che quindi rimane facilmente in memoria. Graffiante e precisa pure al title track, pezzo molto molto rapido, dalla voce quasi psichedelica che però si ripete un po’ troppo durante le strofe, che però portano ad un azzeccatissimo refrain. Non è la mia canzone preferita, ma comunque una buona canzone, in sostanza, sebbene forse la peggiore di quelle sentite fino ad ora, anche nell’assolo. Grande è “Sinister Thinking”, dai gran riff e accompagnamenti, duri ma non pesanti, e traccia che forse ha nella voce (come già in altre prima di questa) il punto debole, troppo acuta per il genere di musica suonato. Sesta track è la pirotecnica “Supersonic Hydromatic” che inizia con una a dir poco coinvolgente chitarra, e che si sviluppa in un ottimo pezzo, carico di energia. La solita voce è la pecca che do al pezzo, ma le parti prettamente strumentali sono davvero di gran livello. In sede di presentazione dicevo che le canzoni seguono il medesimo canovaccio tranne una eccezione. L’eccezione sta in “Don’t Fear The Winter”, canzone dallo stupendo arpeggio, dalla grande melodia, cantata davvero bene, e che di fatto segna una svolta nella storia dei Rage, che in futuro saranno sempre più orientati a questo tipo di power, senza ovviamente tralasciare le loro cavalcate classiche. Cavalcate come “Death in The Afternoon”, pezzo molto tagliente, veloce, ma che mi lascia un po’ con l’amaro in bocca, perché mi da l’idea si di una buona idea, ma che è stata realizzata troppo in fretta, quando potenzialmente poteva essere un gran pezzo. Amen, sarà una mia impressione, anche perché il refrain e davvero carico di carisma e pura energia. Mi trovo molto meglio con “A Pilgrim’s Path” pezzo dotato di buon arpeggio iniziale, voce molto più che accettabile, e soprattutto un basso davvero veloccissimo e ben marcato. Mi esalta tanto anche il ritornello e la chitarra di accompagnamento, anche se la batteria stavolta si esprime sotto il suo livello medio. Encomiabile, ancora una volta, Manny Smidth. Cruda e intrigante rimane “Time and Place”, suonata su scale molto basse, abbastanza quadrata in alcuni punti, e barocca in altri. Wagner canta con un timbro molto seriosa stavolta, il che non gusta mai, un pezzo lento ma molto particolare e aggressivo nella sua essenza. Eccezionale Manny in “Round Trip”, pezzo di puro stampo chitarristico, davvero molto “Rock’n Roll” e allo stesso tempo molto Heavy, caratteri che si miscelano in uno dei pezzi più originali (paradossalmente originale proprio per la sua linearità) e focosi del disco, che ormai è quasi alle sue battute finali. Gran bello l’assolo, ma mi ripeto sempre dicendolo, e quindi prometto sarà l’ultima volta. Velocissima e molto ben ritmata anche “Between the Lines”, song che poi si evolve in un classico pezzo power, molto ben interpretato però. Decisamente fuori dagli schemi anche le ultime “Symbols of our Fear” e “Neurotic”, molto intonata ma suonata solo decentemente la prima, decisamente più estrema e complessa la seconda, difficilissima da capire a primo ascolto, come giustamente ci si deve aspettare da una song di questo titolo. Neurotic chiude dunque un album per molti versi controverso, un chiaro disco di matrice power, genere ai quale i Rage daranno un gran contributo per lo sviluppo, ma talmente fuori dalle righe in alcuni aspetti melodico/compositivi, che non si riesce proprio a decidere come prenderlo. A tratti è vero può risultare un po’ “becero” e viene voglia di toglierlo immediatamente fuori dal lettore, in altri tratti invece risulta un vero capolavoro anni avanti ai tempi in cui è stato scritto. Come dire… se avete la pazienza, sentitelo più e più volte, così o non ve ne separate più, o impazzite nel senso peggiore del termine. Il voto alto ma non altissimo deriva proprio dal fatto che non si sa come prendere questo disco, sicuramente non alla leggera.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :

  1. Wasteland
  2. The Darkest Hour
  3. Animal Instinct
  4. Perfect Man
  5. Sinister Thinking
  6. Supersonic Hydromatic
  7. Don’t fear the Winter
  8. Death in the afternoon
  9. A pilgrim’s Path
  10. Time and Place
  11. Round Trip
  12. Between the Lines
  13. Symbols of Our Fear
  14. Neurotic

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