Recensione: Perfect World

Di Fabio Vellata - 23 Ottobre 2010 - 0:00
Perfect World
Band: Strangeways
Etichetta:
Genere:
Anno: 2010
Nazione:
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75

L’oceano dei ricordi.

Un nome evocativo, unico e leggendario. Qualcosa che per un nucleo ristretto di romantici appassionati, ha rappresentato in epoche ormai remote, un frammento molto simile e vicino ad un angolo di paradiso. Una follia sensoriale, che conduceva ad un’estasi sonora sperimentata in casi alquanto rari e limitati nell’intera storia di un genere particolarissimo e ricercato come l’AOR.

Parlare di Strangeways, “gli” Strangeways, quelli con Terry Brock alla voce è, per il sottoscritto e probabilmente per una buona parte di ascoltatori di rock melodico, un po’ come citare un passo biblico, un pezzo di vangelo da venerare con somma devozione e massimo rispetto. Gigantesche e straordinarie emozioni suscitate con un paio d’album divenuti nel corso degli anni, come una sorta di mito quasi irraggiungibile, cristallizzato in una perfezione estatica persino sovrannaturale. “Native Sons” prima e “Walk In The Fire” poi, segnarono un passaggio fondamentale per un gruppo dalle eccellenze assortite, capace nell’arco di un lustro appena, di scolpire il proprio nome in un olimpo fatto d’eroi riservati a chi dalla musica, vuole passioni, ardore e sogni sconfinati da scenario cinematografico.
Parlare di Strangeways a distanza di ben ventuno anni dalla deflagrante realizzazione di “Walk In The Fire”, in occasione di una reunion e di un nuovissimo prodotto discografico è, dunque, come facile da intendere, operazione che inevitabilmente agita gl’animi, provocando in chi questa musica la respira da sempre, sussulti ed aspettative da allarme rosso, tendente al violaceo.

Già, le aspettative…
Desideri, voglie e speranze che si assommano e che, memori dell’immenso passato, spesso rischiano di condizionare un giudizio e tradursi in un eccesso di critica, mortificando sin troppo quello che ragionevolmente, con poche probabilità potrà mai essere riprodotto con la medesima forza d’immagini e poesia scintillante di un tempo ormai difficile da replicare.
Per discorrere della nuova creatura della band scozzese-americana, è necessario, in effetti, partire proprio da qui. Da un paragone che non può esistere e non deve ottenebrare oltre il dovuto. Da una memoria d’antichi splendori, che non può costringere ad una partenza sfavorevole un disco altrimenti forzato all’immediato oblio e destinato all’accantonamento dopo un paio di nebbiosi ascolti.

Lasciar da parte ciò che è stato, evitando paragoni improponibili è, in buona sostanza, l’unica strada percorribile al fine d’entrare in confidenza con un album che, ad un primo approccio, non potrà che suonare sinistro e davvero troppo differente da quanto atteso e sognato. Scompaiono i suoni da big-eighties, svaniscono le suggestioni metropolitane da kolossal americaneggiante ed evapora quell’atmosfera ebbra di sapori estivi e calda come brezza agostana. Al loro posto, nuovi scenari, inconsueti ed inattesi, a tratti forse spiazzanti, che evocano paesaggi rarefatti e cadenze altrettanto oniriche ma dai contorni decisamente meno esuberanti e diretti.
Non più tramonti infuocati su di un oceano che sapeva di luci e riverberi losangelini, ma tiepide albe sulle romantiche Highlands scozzesi.

Correttamente paragonati da più parti ai Dare di Darren Wharton, i “nuovi” Strangeways appaiono proprio così, come una band cambiata nell’animo, diversa nell’approccio e nello stile, irriconoscibile nei suoni e nelle immagini veicolate dalla musica.
Meglio attendere qualche tempo tuttavia, prima di bollare questa ipotetica maturità artistica come insipida e priva di risvolti piacevoli e riusciti. “Perfect World” è, infatti, un album che tradisce e si nasconde, dissimulando ai primi passaggi quanto di buono ha da offrire in realtà.
L’ombra della grandeur antica si fa minacciosa ed opprimente, lasciando per lo più perplessi ed un po’ amareggiati. Tuttavia, superato l’ostacolo dell’imbarazzo iniziale, l’istinto preme per approfondire alla ricerca di quella che potrebbe essere la vera essenza di un’opera controversa e poco incline a solleticare facili ed immediati entusiasmi. Ed è così che, dopo un sostenuto numero di pazienti ascolti, lo scenario muta, prendendo la forma di un prodotto inatteso ma tutt’altro che poco ispirato o privo di contenuti e suggestioni fascinose.

L’apparente mancanza d’incisività, lascia il posto ad ambientazioni intense e cariche di raffinata eleganza, la classe esecutiva emerge e riluce e le passioni trovano nuova linfa attraverso melodie sornione ed “affusolate”, che colpiscono sottilmente e s’insinuano sottopelle per coinvolgere nelle proprie armoniose spire.
La title track posta in apertura, così come la successiva “Borderlines” e le sognanti “Time”, “Crackin’ Up Baby” e “One More Day” mettono in luce un profilo cantautoriale che regala una nuova profondità al suono degli Strangeways, ed alla voce straordinaria del magico Terry Brock, imbevendosi d’emozioni che sanno di prati bagnati di rugiada e nebbiose mattine nordiche, per poi tornare, almeno nel finale, a riscaldarsi con un po’ di sole.
Un sole romantico e tiepido che accarezza, senza bruciare come invece accadeva tanti anni fa, e che risplende nella ammaliante “Say What You Want”, brano conclusivo che, ricordando vagamente nello stile i Simple Minds, suggella l’album con un titolo che sa di profezia: “Say What You Want”, “dite quel che volete”. Noi ora, dopo oltre quattro lustri, siamo questi…

Qualche episodio meno ispirato (la coppia “Movin On” e “Bushfire” appare tutto sommato “bruttina” e fondata su linee piuttosto noiose e statiche) ed alcuni momenti dal taglio meno rarefatto e soffuso (il blues notturno “Liberty” e l’ipnotica “Can’t let you go”, canzone che potrebbe quasi appartenere ai Winger), completano la panoramica di un disco che non gioca l’arma sicura della tradizione e dello sfolgorante passato per riscuotere consensi e benedizioni, preferendo la ricerca di una nuova identità che si rende dapprima sfuggente per poi mostrare, in un secondo tempo invero abbastanza “remoto” e quasi in punta di piedi, le proprie valide caratteristiche.

Ideale per questo clima autunnale, “Perfect World” è pertanto una sorpresa. Non necessariamente negativa, ne a tutti i costi deludente. Semplicemente una sorpresa, che potrà apparire foriera di risvolti interessanti solo a chi avrà la voglia di accostarglisi con pazienza e dedizione, andando alla scoperta d’emozioni probabilmente diverse ed impreviste che, se opportunamente contestualizzate, non avranno forse il potere di sconvolgere i sensi come tanti anni fa, ma che non tarderanno a rivelare un fascino inconfutabile e carico – anche questa volta – di preziosa ed autentica magia.

Un disco da centellinare, misurare e su cui meditare.

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Tracklist:

01. Perfect World 4:47
02. Borderlines 5:15
03. Movin On 4:54
04. Time 6:03
05. Crackin’ Up Baby 5:03
06. Liberty 4:28
07. One More Day 5:18
08. Bushfire 7:00
09. Too Far Gone 4:37
10. Can t Let You Go 6:05
11. Say What You Want 5:15

Line Up:

Terry Brock – Voce
Ian J. Stewart – Chitarre
Warren Jolly – Basso
Jim Drummond – Batteria
David “Munch” Moore – Tastiere

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