Recensione: Permission To Land

Di Mauro Gelsomini - 19 Dicembre 2003 - 0:00
Permission To Land
Band: The Darkness
Etichetta:
Genere:
Anno: 2003
Nazione:
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87

Genuina promessa o trovata commerciale?
Secondo me tutte e due le cose. La seconda è probabilmente quella che salta subito e maggiormente all’occhio, soprattutto all’occhio di un fruitore distratto e – qui sta il trucco – poco avvezzo al rock/metal.
Eh sì, perché per il lancio dei The Darkness tutto è stato studiato nei particolari: l’uscita del singolo sotto Natale con tanto di video in tema, quel monicker accattivante scritto in maniera così maledettamente kitch anni ’50, il ritorno improvviso del glam, palla da cogliere al balzo vista la gran mole di nostalgici… E poi tanta sfrontatezza, quella da vere rockstar, che il leader Justin Hawkins ha da vendere, a giudicare dal suo spiccato istrionismo.
Eppure mi azzarderei a non considerare la band come una meteora, ma piuttosto come una realtà che si è imposta subito e che a fatica verrà scalzata dalla posizione che s’è ritagliata nel panorama rock. Pare di risentire le provocazioni – in chiave soft, ma neanche troppo – degli W.A.S.P. d’annata, o le scelleratezze musicali dei migliori AC/DC, cui i nostri devono molto anche per quanto riguarda il sound.
Si capisce subito, senza indugi, senza dubbi, fin dalle prime due disarmanti song: “Black Shuck” è fulminante per la sua vena AC/DC, “Get Your Hands Off My Woman” invece riporta in auge il machismo ottantiano incastonato in un songwriting degno dei migliori Van Halen. Con “Love is Only a Feeling” si invoca la stravaganza rock/blues dei 70s, col suo mood zeppeliniano.
Il denominatore comune, il collante, se vogliamo, è la voce di Justin, cangiante, coi suoi falsetto irriverenti, i ruggiti quasi in growl veramente acidi, come già detto dotato di un carisma d’altri tempi, e in grande spolvero nel glam tirato a lucido di “Friday Night”, le cui lyrics sono un irrefrenabile tributo a “Happy Days”.
Pur essendo inglesi, i The Darkness sfidano la madrepatria (immagino che lì non saranno molto amati dai puristi) con un dichiarato amore per usi e (soprattutto) costumi musicali per lo “stelle e strisce”. Non fosse per le foto che trovate sul booklet, basterebbe leggere i testi di alcune song per rendersi conto che si tratta di veri e propri tributi all’arena rock americano, che non dovrebbe però far dimenticare che dietro a facili maschere si cela un amore spropositato da parte dei nostri per i Queen di Brian May, oltre che per i Kiss…
E non si tratta neanche di un frontman straordinario alla guida di un gruppo anonimo, dal momento che gli altri bandmate sanno il fatto loro: lo stesso Dan Hawkins, fratello di Justin, si alterna col singer in assoli à la Van Halen tutt’altro che avari di virtuosismi, mentre la sezione ritmica è composta da Frankie Poullain al basso e Ed Graham alla batteria. Quest’ultimo è un pesce fuor d’acqua, un jazzista probabilmente attratto dal profumo del boom commerciale… I due su “Growing On Me” vengono fuori più che negli altri brani, forse per via del fatto che Justin non esagera con i suoi urletti…
Da applausi il singolo “I Believe In A Thing Called Love” (vi invito a guardare il video, davvero kitch!), l’hollywoodianissima “Love On The Rocks With No Ice”, che gira su un riffing quasi inquietante, o la conclusiva “Holding My Own”, dal refrain fottutamente orecchiabile, di chiara ispirazione Meat Loaf.
Può darsi che molti di voi abbiano già deciso di odiare dal profondo i The Darkness, avendoli visti su qualche grande network al fianco di band già “vendute” al music business, ma vi chiedo soltanto di pensare a quante altre volte negli ultimi dieci anni vi sia capitato di imbattervi in una band che pare uscita direttamente dal Castle Donington del 1980…
Tracklist:

  1. Black Shuck
  2. Get Your Hands Off My Woman
  3. Growing On Me
  4. I Believe In A Thing Called Love
  5. Love Is Only A Feeling
  6. Givin Up
  7. Stuck In A Rut
  8. Friday Night
  9. Love On The Rocks With No Ice
  10. Holding My Own

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