Recensione: Pillar Of Detest

Di Daniele D'Adamo - 11 Novembre 2015 - 0:05
Pillar Of Detest
Band: Moonreich
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2015
Nazione:
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75

Non c’è possibilità di errore: quando la sofferenza interiore raggiunge livelli elevatissimi, è il black metal che nasce dal cuore, sgorga dai ventricoli, fluisce nelle vene sino arrivare al cervello; fornendo la necessaria obnubilazione per la vertiginosa discesa nella misantropia.

Come gli oggetti nel Maelström, tremenda corrente che transita rapida e pericolosa al largo delle isole Lofoten, là nelle terre delle aurore boreali, la coscienza subisce una violenta sublimazione derivante dallo stato di trance da hyper-speed. Cioè, l’assurda e annichilente velocità dei blast-beats che, come ondate di marea, travolgono e sommergono ogni forma di resistenza alla tristezza della vita.

Spettacolari, in tal senso, le agghiaccianti accelerazioni che i francesi Moonreich riescono a produrre nel loro terzo full-length: “Pillar Of Detest”. Un album che suggella una carriera cominciata grazie a Weddir (Aevlord, Chadenn (live), Glorior Belli (live), ex-The Negation) nell’ormai lontano 2008 e costellata da due EP (“Zoon Politikon”, 2009; “Curse Them”, 2012) e dall’altra coppia di platter, per l’appunto: “Loi Martiale” (2011) e “Terribilis Est Locus Iste” (2013).

Il sound della formazione transalpina è terrificante. Addentrandosi nelle solitamente antipatiche sotto-definizioni, utili nondimeno a comprendere meglio con chi si abbia a che fare, i Moonreich sparano a tutta forza il più brutale dei black metal: il fast black metal. Ciò, riferito all’aspetto prettamente musicale del progetto che, dati le tematiche riferite alla guerra, possono far apparire i Nostri come epigoni delle celebri Légions Noires che hanno contraddistinto il movimento black d’oltralpe nella metà degli anni ’90.

Il feroce condottiero L. (Ishtar) trascina i suoi compagni nell’abisso della disperazione con un cantato roco, aggressivo, malato, ma non spinto così tanto in direzione del classico screaming; regalando al combo di Parigi un tocco di originalità. L’ottima produzione, inoltre, consente di godere appieno della furia scardinatrice dei due iper-cinetici axe-man, il ridetto Weddir e Sinaï (Griffon), capaci di erigere con pulizia e precisione un cupo muraglione di suono esteso all’infinito da una parte e dall’altra del piano cartesiano. Ma anche di cucire soli laceranti a mo’ di fili spinati ad alta tensione. Senza tralasciare il veemente, continuo e cupo rimbombo prodotto dal basso del super-titolato Macabre (Azziard, Charogne, Griffon, Mortis Mutilati, Procession Of Death, Septentrion, ex-Decrepitude, ex-Neptrecus, ex-Skog).

Piuttosto rari i break meno movimentati, anche se Weddir e compagni sanno perfettamente muoversi con perizia anche entro tali ambiti, fattispecie dimostrata dalla stupenda “Long Time Awaited Funeral”, raro momento di melodia che, come un granello nel deserto, riporta la mente alla specialità d’oltralpe: il post-black. Si tratta però di cali di tensione necessari ad assorbire con la massima capacità ricettiva bombardamenti termonucleari del tipo di “Pillar Of Detest – World Shroud”, destinati a fiaccare la resistenza per un’esistenza di luce e facilitare quindi la chiusura in se stessi. A volte il dolore per le vicissitudini della squallida vita terrena supera livelli insostenibili, valica i confini del tormento, entra nei territori dello strazio. Ove, unica possibilità di sopravvivenza, è la chiusura a doppia mandata nella propria cellula di metallo nero, nella quale non c’è spazio per nessun altro che non sia se stesso. Una condizione fisica, ma soprattutto mentale, la cui visione senza futuro è disegnata a linee forti da song irreversibilmente distruttive come “All Born Sick” e l’allucinante “Freikorps” (Corpi liberi, milizie volontarie reclutate in Germania nel XVIII secolo, NdR).

Un’altra perla nera, insomma, proveniente dalla confinante Nazione tricolore.

Una perla nera da non lasciarsi sfuggire.        

Daniele D’Adamo

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