Recensione: Play God

Di Marco Tripodi - 4 Febbraio 2017 - 8:00
Play God
Band: Reverend
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 1991
Nazione:
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86

Rispetto a “World Won’t Miss You” uscito l’anno prima, questo secondo sforzo discografico dei Reverend dell’ex pastore della suprema Chiesa Metallica di Frisco David Wayne  vede un notevole rimaneggiamento della line-up. I membri passano da cinque a quattro, Dennis O’Hara se ne va e subentrano Angelo Espino al basso e Jason Rosenfeld – fratello di Scott Ian – alla batteria (entrambi anni dopo confluiranno negli Heretic, in quel curioso e incessante ping pong di musicisti tra Metal Church, Reverend e appunto Heretic, una specie di grande posse “clericale”). Una manciata di mesi dall’agosto del 1990 perché Wayne si ripresenti al pubblico, battagliando con quel capolavoro che è “The Human Factor“. Impossibile non pensare ad una perenne competizione tra i suoi ex band mates ed il leoncino di Spokane, Washington.

Se “World Won’t Miss You” era già parso un ottimo lavoro, “Play God” sublima ulteriormente la proposta dei Reverend, attestandosi un capello sopra (anzi un ricciolo di Wayne), mostrando un gruppo in grandissima forma, incurante dei rovesciamenti in formazione, motivatissimo e in stato di grazia per quanto attiene la lucentezza del songwriting. Purtroppo in fase di produzione, nonostante un vip come Michael Rosen (Forbidden, Laaz Rockit, Sadus, Testament, Visious Rumors, Vio-Lence) in consolle, qualche magagna rimane. Il suono della batteria è abbastanza penalizzante, e pure le chitarre graffiano come un micetto da svezzare, tuttavia limitandosi al valore delle composizioni, alla loro forza e potenza, si rimane stremamente soddisfatti dalla vitalità e dallo sfolgorio evidenziato dai Reverend.

La tracklist è molto varia, up-tempos (“Butcher Of Baghdad“, “Warp The Mind“), mid-tempos grintosissimi (“Heaven On Earth“, “Promised Land“, “Blackened Thrive“, “Death Of Me“), power ballad di grande intensità (“Blessings“, “Play God“) si alternano a mitraglia; fanno eccezione la poliedrica “What You’re Looking For” che assomma un po’ tutto nei suoi quattro minuti abbondanti, la conclusiva “Far Away“, commiato dolciastro e assai emotivo, e la cover dei Creedence Clearwater RevivalFortunate Son“, un classico antimilitarista che i Reverend fanno letteralmente scoppiare di energia. In realtà l’ascolto non si conclude qui poiché Divebomb Records, che riedita il lavoro a distanza di 26 anni, provvede a corredare la scaletta originale di 6 tracce bonus, estratti live da entrambi i full-lenght del gruppo. Il booklet del CD contiene anche una succosa intervista a Brian Korban nella quale apprendiamo preziosi aneddoti riguardanti ad esempio l’abbandono di O’Hara (dovuto prevalentemente all’alcolismo) e Rick Basha (di salute cagionevole, soprattutto durante i tour), la scelta della cover dei Creedence Clearwater Revival che la spuntò sul filo di lana ai danni di “Revolution” dei Beatles e via discorrendo.

Play God” fu e rimane un gran bel disco che come molti altri all’epoca arrivò nei negozi nel momento sbagliato, quando progressivamente il pubblico – soprattutto yankee – stava voltando le spalle al metal tradizionale, lasciandosi irretire dalla formula di capelloni esistenzialisti in flanella. Korban imputò alla Charisma una cattiva promozione dell’album. Si scatenò una vera e propria guerra intestina tra i Reverend e il management, ed anche all’interno della band la curva discendente di attenzione da parte dei metalkid provocò inevitabili quanto prevedibili contrasti, portando allo split.  Seguì nel ’92 un live EP pubblicato più per dovere contrattuale che altro (qui interamente riproposto dalla Divebomb). Rimangono agli atti dunque un paio di album ed altrettanti EP che parallelamente ai Metal Church, ombra perennemente riversata sul power thrash dei Reverend, testimoniano l’egregio lavoro di volitivi musicisti capitanati da un’anima tormentata ma assai talentuosa come fu quella di David Wayne. Una riscoperta ancorché postuma dei sermoni del Reverendo è d’obbligo.

Marco Tripodi

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