Recensione: Post Mortem Nihil Est

Di Daniele D'Adamo - 15 Giugno 2013 - 18:23
Post Mortem Nihil Est
Band: Dagoba
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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80

 

Dagoba.

Cioè, come si possa evolvere con decisione verso universi via via più lontani nel tempo.

Partiti dalla base di un death ‘ordinario’ nel 1997, dopo un EP (“Release The Fury”, 2001) e ben quattro full-length (“Dagoba”, 2003; “What Hell Is About”, 2006; “Face The Colossus”, 2008; “Poseidon”, 2010) i francesi dirigono, con l’ultimo nato “Post Mortem Nihil Est”, il timone in direzione di un più moderno e fantascientifico melodic cyber metal. Non dimenticando, tuttavia, di portare con sé le vestigia di un genere, il death, appunto, che penetra sino al profondo dell’anima del mastermind Shawter (voce e campionamenti) e dei suoi compagni d’avventura (Yves Terzibachian, chitarra; Werther Ytier, basso; Franky Costanza, batteria).      

Il metro di paragone in materia sono i Fear Factory, ovviamente, ma a parte la vicinanza a essi per quanto riguarda la tipologia costruttiva di uno stile devastante, i Dagoba risolvono la questione in maniera assolutamente personale. L’alternanza growling rabbioso/clean vocals melodiche, l’incedere meccanico del drumming, i riff quadrati e i robusti campionamenti a far da colorito sottofondo, sono coordinate fisse che chiunque intenda percorrere la strada della più avanzata forma di death metal deve rispettare senza indugio né tentennamento. Poi, tutto quanto avvolge questa struttura fondamentale può anzi deve essere interpretato con il filtro della creatività, della fantasia, del carattere, per dar luogo a qualcosa di unico, peraltro riconoscibile senza troppa difficoltà. Evitando di essere solo dei cloni, o poco più, di Burton. C. Bell e dei suoi discendenti.   

I Dagoba riescono in quest’impresa mettendo sul tappeto una più che buona inventività sia per quanto riguarda lo sviluppo del proprio marchio di fabbrica, sia per quello che concerne la definizione di ciascun episodio dell’album. La loro visione d’insieme abbraccia quindi un ampio e luminoso orizzonte, delimitato sì dagli stilemi più sopra elencati, ma piuttosto distante – come umore – dagli oscuri e gelidi scenari à la “Demanufacture” (Fear Factory, 1995). Al contrario, sebbene i titoli dei brani possano far supporre il contrario, lo spirito animatore di “Post Mortem Nihil Est” è improntato sull’aria che si respira quando si compiono epiche gesta o si raccontano storie leggendarie. Come se, non a caso, si potesse materializzare in carne e ossa il dio greco del mare e dei terremoti, Poseidone, e descriverne le imprese a suon di musica (“The Day After The Apocalypse”).   

Una sensazione di potenza, di forza, profumata dallo iodio spruzzato dall’acqua di mare in tempesta, che emerge immediatamente con l’opener “When Winter…”, song dal tremendo impatto sonoro. Il vocalist sembra davvero far da voce narrante per mitiche avventure, sottolineate dal bombardamento a tappeto del basso, dalle avvolgenti tessiture delle tastiere e, soprattutto, dal gigantesco muro di suono eretto sui fondali oceanici grazie al titanico lavoro della chitarra e dai semplici quanto micidiali ritmi dettati dalla batteria. Benché, com’è ovvio che sia, il disco presenti vette di eccellente melodiosità (“Yes, We Did”, “Kiss Me, Kraken”, “By The Sword”) assieme a qualche passaggio un poco più ordinario (“The Realm Black”), il livello qualitativo medio del platter medesimo è alto, trovando un giusto equilibrio fra immediatezza e longevità; due concetti apparentemente opposti ma, invece, compatibili se affrontati con l’innata classe compositiva posseduta dalla formazione marsigliese. Classe che consente loro, inoltre, di accostare in modo praticamente perfetto due altrettanti aspetti in teorica antitesi: forza bruta (“Oblivion Is For The Living”) e raffinatezza (“Nevada”). Per questo, “The Great Wonder” appare l’ideale bandiera, ponendo vicino a un andamento non particolarmente veloce ma dannatamente massiccio l’agilità di un cantato vario e articolato, capace di tirar fuori dal cilindro un ritornello clamoroso. Refrain come quello di “Son Of A Ghost”, straordinario per armonia e orecchiabilità.  

Per tutto quanto sopra, forse, i patiti dell’old school non saranno i più adatti a questo tipo d’ascolto, ma “Post Mortem Nihil Est” è un’opera colossale, esemplificativa di un genere in continua e perenne progressione; diretto – come vuole il Terzo Millennio – verso il futuro e la tecnologia  elettronica, dando sempre e comunque uno sguardo al passato.

Bravi, molto bravi, questi Dagoba.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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