Recensione: Posthuman

Di Daniele D'Adamo - 13 Febbraio 2018 - 19:23
Posthuman
Band: Harms Way
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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80

Partiti nel 2007 come semplice band di hardcore, gli Harms Way hanno via via metallizzato la loro proposta musicale, eseguendo l’operazione in maniera sempre più invasiva nella successione dei loro full-length: “Isolation”, 2011; “Rust”, 2015, e “Posthuman”, 2018.

Proprio con “Posthuman”, l’ultimogenito dal titolo evocativo, la formazione di Chicago raggiunge le frontiere più oltranziste del metallo fuso, del metallo urlante, del metallo devastante; onorando il titolo medesimo con abbondanti spruzzate di industrial metal, per sottolineare ciò che aspetta, in un futuro oramai prossimo, l’Umanità: macchine, macchine, macchine. Le quali, come sottolineato dal ritmo sincopato delle song, compiranno l’opera di sostituzione degli esseri umani con meccanismi cibernetici senzienti.

Un tema già utilizzato sia in ambito metal, sia in ambito cinematografico ma che, essendo di avanguardia nella cultura della società media, risulta sempre affascinante, intrigante e avvolgente. Soprattutto se utilizzato per sostenere strutture musicali massicce, enormi, poderose. Come quella dei Nostri, capaci di erigere un muro di suono titanico, di altezza indefinita ma sufficiente per oltrepassare la cortina nebbiosa che attanaglia un mondo ormai preda di inquinamento e in costante decadimento.

Sarebbe errato, però, pensare agli Harms Way come a una formazione di industrial metal. Abbandonato l’hardcore vero e proprio, il terrificante sound di “Posthuman” si avvicina molto a quello del deathcore. In fondo la desinenza *-core resta lì, a perenne memoria di un retroterra culturale centrato sul pestare quanto più duro possibile sul pedale dell’energia, della potenza, della velocità. Le song che compongono il platter sono delle rasoiate tremende, appesantite all’inverosimile da stop’n’go in grado di strappare le membra, di annichilire i padiglioni auricolari (‘Become a Machine’).

Le stentoree linee vocali azzardate da James Pligge incutono paura per davvero, segnate dall’aridità non-umana delle harsh vocals. Vero condottiero, Pligge prende per mano i suoi compagni per condurli nel vortice della follia, dell’allucinazione, che sa tanto di cyberpunk (‘Temptation’). Anche se, a ben vedere, il quintetto dell’Illinois preferisce le prove di forza, sparpagliate qua e là fra i solchi delle canzoni (‘Human Carrying Capacity’). La capacità produttiva della Metal Blade Records regala un suono mostruoso, perfetto, limpido e tagliente come pochi. Ideale per scatenare, senza perdere nemmeno un gramo di energia, tutta l’aggressività di cui sono capaci gli Harms Way che, davvero, non è poca.

Con una concezione del genere di ciò che devono sputare fuori le chitarre, vere macchine trancia-ossa, è difficile pensare a qualcosa che suoni melodico, e così è. Ma non è un punto di demerito, per la band statunitense, anzi. Così facendo, può elevare ai massimi livelli l’intensità devastante di un lavoro da tenere assolutamente lontano ai deboli di cuore.

Potenza pura!

Daniele “dani66” D’Adamo

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