Recensione: Profan

Di Andrea Poletti - 18 Febbraio 2016 - 0:01
Profan
Band: Kampfar
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2015
Nazione:
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79

La perfezione è un’utopia che in molti cercano di delineare lungo la vita attraverso l’idealizzazione di un raggiungimento conoscitivo, sociale, culturale e/o artistico. I Kampfar giungono al traguardo del settimo album con un’invidiabile successo: una discografia inattaccabile che rasenta quell’utopica perfezione accennata poco fà. Se la dipartita nel 2010 di Thomas aveva fatto perdere un pizzico di interesse da parte dei fans, quelli affezionati più alla persona che al progetto in quanto tale, l’approccio compositivo del gruppo non è mutato di una sola virgola e l’anno successivo Mare aveva fatto esplodere applausi a scena aperta, confermando quanto di buono ci sia nel gruppo piuttosto che nel singolo. A discapito di una costante avanguardia sonora (concedetemi il termine volutamente forzato) pur non avendo mai stravolto il circuito underground, non avendo nemmeno mai creato l’album perfetto al cristallino i Kampfar da sempre risultano inattaccabili sotto ogni aspetto; mai un album uscito “male”, mai un calo di creatività e sopra ogni cosa mai deluso le aspettative dei propri fans, che ad ogni capitolo, rimangono a bocca aperta per la qualità riscontrabile su ogni singola composizione.

Certamente ripresentarsi sul mercato ad un anno o poco più di distanza dal precedente Djevelmakt è azzardato; tutti noi sappiamo che per avere un minimo di credibilità e di ispirazione un ciclo vitale che porta al compimento di un nuovo traguardo necessita di tempo ed attenzione, che equivale a due o tre anni vitali se in mezzo ci mettiamo il/i tour promozionale/i che sono necessari al mantenimento in vita di un gruppo. Profan nasce dalle ceneri di Djevelmakt implementando e migliorando la proposta, ponendosi probabilmente al di sopra ti ogni album composto da qui a Kvass. Esageriamo? Ascoltare per credere.

Sappiamo perfettamente che il sound dei Kampfar oggi è meno violento e oltranzista rispetto al primo periodo, sappiamo ancora meglio come le tecnologie moderne e le influenze che vanno ad inserirsi in questo o quel contesto culturale-musicale modellano i risultati finali in maniera più o meno preponderante. Proprio per questo i Norvegesi sono identificabili a livello metaforico come una spugna, dove più assorbono esperienza, sfumature e visioni differenti; più queste vengono afferrate e fatte proprie senza andare contro la coerenza che sta alla base del progetto più si può optare per il concetto di “progressione sonora”. Studiare, analizzare, comprendere e successivamente migliorarsi; questo è il processo che costruisce le fondamenta della band; questo concetto semplice è “piccolo” ma abbastanza perché se applicato a questo caso specifico faccia comprendere quanto i nostri meritino rispetto incondizionato.

Profan ci viene introdotto da Gloria Ablaze, una canzone centrata in ogni minimo dettaglio con quella partenza in quinta con un riff maligno ed inattaccabile che lascia spazio man mano ad una atmosfera glaciale e nordica come solo i Kampfar riescono a creare, attraverso cori ed aperture di altissima qualità con il trade-mark stampato sopra a fuoco. Come riscontrabile in molti passaggi lungo la tracklist sono le clean vocals a donare l’effetto sorpresa, pur non essendo una novità, risultando avvincenti e azzeccate al 100%; senza questo specifico tocco di “epicità norrena” avremmo ipoteticamente avuto solamente brani zoppicanti, ma qui sbagliare è impossibile. La scaletta si snoda attraverso canzoni che hanno una loro precisa identità, ognuna di queste ha valore e senso di esistere, anche nei casi paradossali come la Titletrack e Pole in the Ground che possono essere definite “standard” per il gruppo, si riesce inevitabilmente a lasciare un segno indelebile confermando il certificato D.O.P..

Lo sguardo rivolto a nuove sperimentazione viene piuttosto sottolineato dalle magistrali Icons, Skavank e Daimon, un trittico al limite del comprensibile che innalza Profan da buono ad altisonante. La prima viene aperta da un leggero andante orchestrale prima di sfociare in una rabbia assassina pura e ferale, dove la parte centrale lascia intravedere sprazzi dei primi Gorgoroth e dei Taake che furono, combinati con Enslaved e Windir di un tempo oramai dimenticato poggia le basi nel remoto per innalzarle a futuro prossimo. Skavank dalla sua, attraverso i lunghi sette minuti e mezzo, ha la capacità di lasciarsi scoprire ascolto dopo ascolto, una rasoita nello stomaco che diventa il sussurro contemporaneo dei Mayhem che oggi tutti rimpiangiamo: inutile girarci intorno da 3:40 circa l’eco di De Mysteriis Dom Sathanas è palese, non prendiamoci in giro ragazzi.

Fortuna e sfortuna dei nostri è il venire dopo, ma omaggiare contemporaneizzando con questa classe è da applausi. Daimon, il singolo che ha lanciato i Kampfar sul loro primo video promozionale, è qualcosa di sublime, talmente evocativo lento e sinistro che spesso e volentieri viene da girarsi con la paura che qualcuno alle tue spalle sia li a osservarti nell’ombra. Il clean vocal magistralmente eseguito e la combustione degli intenti con le sovrastrutture create ha dello straordinario, da ascoltare in rigoroso silenzio senza perderci altre parole in merito. La parabola si chiude con Tornekratt che da descrivere risulterebbe più difficile che altro; cinque minuti di disperazione, urla e l’evocazione di un male interiore come in pochi riescono a tramutare in musica. Pare un ritorno al passato con gli stratagemmi di oggi amplificati e tolti dalle catene di un’incapacità compositiva primordiale; il brano perfetto per chiudere un album al limite dell’impeccabile.

Sovrastato da una cover magnifica creata dal genio di Zdzisław Beksiński Profan racchiude in sé tutto quello che oggi sono e devono essere Kampfar per continuare a troneggiare sul suolo dell’underground. Anche la produzione, seppur ipercompressa, riesce ad innalzarsi facendoci ascoltare ogni singolo strumento e mantenendo intatto quell’odore di putrido disgusto creato da sempre nel dischi dei Norvegesi; il tempo che scorre non deturpa la pietra miliare delle gesta dei morti viventi. Probabilmente fra dieci o quindici anni parleremo di altri dischi, loro e non, che han segnato un periodo storico come quello che stiamo vivendo ma oggi, in questo momento, mentre state leggendo, Profan è la colonna sonora perfetta per oltrepassare i confini della perdizione.

“Immondo, spudorato e incompreso

Potrebbe essere giudicato solo dalla morte

Può essere ucciso solo dalla falce

per sempre maledetto

odio eterno

irrispettoso

Profano

La profanazione della sporca vita

Un verme che vomita sfidando la morte

Un verme abbandonato”

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