Recensione: Profit

Di Lorenzo Maresca - 26 Luglio 2016 - 10:00
Profit
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2016
Nazione:
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75

Procede con calma ma non si ferma la discografia dei The Jelly Jam. Con Profit il supergruppo formato da Ty Tabor (King’s X), John Myung (Dream Theater) e Rod Morgenstein (Dixie Dregs, Winger) arriva infatti al suo quarto album in quindici anni, un periodo durante il quale i tre musicisti hanno dovuto fare i conti con i numerosi impegni delle rispettive band principali, che occupano gran parte del loro tempo. In ogni caso non sono mancati gli stimoli per proseguire, se non altro perché, per artisti da sempre inseriti del ambiente del progressive (soprattutto Myung e Morgentein), un progetto come i The Jelly Jam rappresenta una sorta di valvola di sfogo, una buona occasione per suonare musica più semplice e diretta, lasciando da parte i virtuosismi. In questo senso il nuovo album non fa eccezione e prosegue sulla linea tracciata dai precedenti: via tutti i fronzoli, gli assoli interminabili o i suoni troppo elaborati, qui un buon riff e pochi accordi sono sufficienti per scrivere una canzone, come vuole la tradizione rock. Naturalmente Ty Tabor e soci non si lasciano mai andare a una musica disimpegnata; al contrario, sanno mantenere la componente melodica, sempre presente, in equilibrio con passaggi più pesanti che, in ogni caso, non diventano mai violenti.

Tuttavia l’aspetto forse più interessante del nuovo lavoro riguarda i testi, trattandosi di un concept album che trova il suo senso proprio nel gioco di parole tra “prophet” e “profit” riportato sull’eloquente copertina. Le tematiche sono quanto mai attuali: si parla delle difficoltà e dei problemi della società contemporanea, in primo luogo di quelli causati dalla sete di denaro e dall’avarizia, vizi che hanno accompagnato l’umanità durante tutta la sua storia ma che oggi sembrano presenti più che mai. Dal punto di vista musicale tutti i brani riescono bene a trasmettere l’atmosfera voluta dalla band, quel senso di leggera malinconia e disillusione che però non ci impedisce di rinunciare del tutto a una speranza per il futuro. In particolare il brano d’apertura, “Care”, riesce a sintetizzare i diversi aspetti dei The Jelly Jam, dall’introduzione sognante ai corposi riff distorti che, con il loro incedere lento e quasi minaccioso, contrastano con la voce sempre limpida di Ty Tabor. Le influenze del sound inglese, più nello specifico dei Beatles, che avevano caratterizzato il songwriting di Tabor nei precedenti dischi ora sembrano un po’ meno presenti, per lasciare invece più spazio a sonorità tipiche del rock americano, come dimostra “Water”, con il suo ritornello che richiama vagamente gli Alice in Chains, o “Mr. Man”, pezzo tutto incentrato su un groove a metà strada tra il post-grunge e l’alternative.
L’album scorre senza particolari sussulti, basandosi a grandi linee su una formula ormai collaudata dalla band, ma bisogna riconoscere che quasi tutte le canzoni fanno il loro dovere, soprattutto per merito di ritornelli azzeccati, che ci si ritrova a canticchiare già dopo pochi ascolti. Avvicinandosi alla conclusione il ritmo rallenta e i riff lasciano il posto a delicati arpeggi in una serie di ballate tra le quali si distingue senza dubbio “Heaven”. Il brano, uno dei più riusciti di tutto il disco, culla l’ascoltatore durante la parte cantata per poi confluire nella strumentale “Permanent Hold”, l’unico pezzo in cui la band si concede una piacevole jam session.

Non si potrà certo gridare al capolavoro ma, ancora una volta, il trio americano ha fatto della semplicità la sua forza, aiutato non solo da una grande esperienza, ma anche da una sana passione che i singoli membri riversano in questo side project. In effetti è difficile trovare tra le dodici tracce di Profit qualche momento poco ispirato o inserito a forza: l’album resta sempre su buoni livelli e, alla fine, le preferenze per una canzone o per l’altra sono determinate forse più dai gusti personali che da una vera differenza nella qualità. Se i The Jelly Jam non hanno mai avuto la pretesa di comporre musica rivoluzionaria, hanno però dimostrato di saper produrre un rock valido e pregevole che, con la nuova uscita, ha trovato un ulteriore conferma.

 

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