Recensione: Public Enemies

Di Marco Tripodi - 13 Dicembre 2017 - 8:00
Public Enemies
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2017
Nazione:
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70

L’ultimo vero studio album dei Pretty Boy Floyd risale al 2003, “Tonight Belongs To The Young“. Da allora ad oggi di uscite (ufficiali) della band se ne contano almeno sei, ma tra raccolte, singoli, cover album, live e tributi, per arrivare ad avere nuovo materiale inedito abbiamo dovuto aspettare il qui presente “Public Enemies“. Che poi di dischi veri in carriera i losangelini ne hanno incisi quattro, facciamo 3 e 1/2 – considerando che “Porn Stars” è un accrocchio di frattaglie varie – a fronte di una quantità assurda di pubblicazioni. Nel 1989 con il debut “Leather Boyz With Electric Toyz” erano già sulla parabola discendente del cosidetto hair/glam metal; è vero, ancora uscivano “Trash” di Alice Cooper (album che per certi versi sancisce e fotografa proprio la fine di quell’era), “Twice Shy” dei Great White, il primo degli Enuff Z’Nuff o “Cocked And Loaded” degli L.A. Guns, così come l’anno dopo gli Warrant terranno ancora accesa la debole fiammella con l’iconico “Cherry Pie“. Tuttavia Posion, Cinderella, Motley Crue, Ratt, Hanoi Rocks, Twisted Sister, Faster Pussycat, Bon Jovi, Def Leppard avevano già espresso il massimo ed intanto cominciavano ad arrivare band come i Disneyland After Dark o i Faith No More, che di colpo facevano sembrare vecchissimo quel certo modo di intendere l’hard rock.

Lee Aaron, Lita Ford, gli Whitesnake di “Slip Of The Tongue“, i Tesla, gli Skid Row, gli Aerosmith (col platinatissimo “Pump“) non mancavano all’appello, mentre ad esempio i Kiss con “Hot In The Shade” cominciavano a mostrare una preoccupante flessione. E gli Wasp, i raffinati Badlands, Blue Murder, Mr. Big che si contrapponevano ai pacchiani Nitro o ai parvenu della steppa Gorky Park; di nomi se ne potrebbe fare a bizzeffe, ma il vento stava cambiando e proporre ancora quel sound fatto di colori fosforescenti, testi adolescenziali fallocentrici, spandex e lacca per capelli risultava sempre più demodé, inappropriato ed immaturo. Paradossalmente “Leather Boyz With Electric Boyz” non solo rimarrà agli atti come il miglior album dei Pretty Boy Floyd, ma anche come uno dei migliori episodi del filone tout court, a dispetto della sua tarda comparsa sulla scena. Come tutti gli esordi sfolgoranti, quel capitolo discografico diventa croce e delizia della band, costretta a rapportarsi sempiternamente al disco “fenomeno” ed incapace di replicare tanta magnificenza. Complice il volgere dei tempi e lo tsunami della flanella e dei clangori industriali che imperverseranno lungo i ’90s, la band sostanzialmente muore lì (discograficamente). Nel ’99 si rivede all’opera con “Porn Stars“; già il titolo chiarisce che l’attitudine non è cambiata di una virgola, l’audience si però. Se prima la fame per quel sound era totale, assoluta e generalizzata, adesso un gruppo come i Pretty Boy Floyd si rivolge ad una nicchia di nerd mai guariti dall’attaccamento al rock losangelino degli anni Ottanta. Quello rimane lo status della band, tutt’oggi una specie di distintivo, una coccarda appuntata sui giubbotti denim & leather di vecchiardi ex frequentatori del meretricio dei Boulevard californiani, nonché ex portatori di rossetto e improbabili orecchini a cerchio dal diametro di una ruota di un Toyota Rav4.

Public Enemies” non è esattamente il disco che legioni di potenziali acquirenti aspettavano, ma i Pretty Boy Floyd hanno ampiamente dimostrato di non fare dischi per la ragione che qualcuno li richiede a gran voce. Il mercato ha già sentenziato che per band come loro non c’è più posto. E chissene….si sono detti i nostri, continuando a fare esattamente lo stesso di un quarto di secolo fa, musica glam per chi ci vuole stare, gli altri si fottano. Arrivano così 12 nuove tracce (tolta l’intro citazionista che riprende il corettino di “Leather Boyz…“, e “Shock The World“, strappata alla tracklist di “Queen 4 A Day” degli Shameless, altra band di “revenant” simile per attitudine ai Pretty Boy Floyd e con la quale Steve “Sex” Summers collabora abitualmente) che in tutta sincerità a me sono piaciute. Fatte salve tutte le premesse del caso, ovvero che un album così è anacronistico, che i Pretty Boy Floyd non inventano niente e non lo hanno inventato nemmeno nel 1989, che prima i treni arrivavano in orario e qui era tutta campagna, beh… ciò detto, “Public Enemies” è divertente e soprattutto estremamente onesto. La band fa quello che sa fare, suona e canta quello che ama suonare e cantare, non vende fumo ma il proprio arrosto collaudato, cucinato magari dal cuoco di una appetitosa e rustica tavola calda per camionisti anziché da un carismatico ed estroso chef televisivo di un bizzarro ristorante dall’arredamento di design. “High School Queen“, “Girls All Over The World“, “We Got The Power“, “7 Minutes In Heaven“, “So Young So Bad” sono ottimi esempi di glam capace di far sculettare oggi e per sempre, a patto di apprezzare il rock fatto di tette, calze a rete e tanto make up abbondante. Lunga vita a questi criminali dell’eyeliner.

Marco Tripodi

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