Recensione: PumpKings

Di Roberto Gelmi - 31 Luglio 2017 - 9:45
PumpKings
Band: Masterplan
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2017
Nazione:
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45

PumpKings è un album concepito in chiave commerciale, un’ora di brani helloweeniani anni Novanta con un artwork accattivante (vedasi manina satanica in primo piano che richiama capziosamente i due Keeper), niente di più. Se partiamo con questa constatazione come premessa, possiamo giudicare a mente più lucida la qualità del platter suddetto, che, lo ribadiamo, non si prefigge alcun obiettivo artistico particolare. Roland Grapow è il mastermind dei Masterplan dal 2001, anno di fondazione della band teutonica, costola del periodo più duro e oscuro degli Helloween. Primo album in discografia notevole, secondo album meno accattivante, poi il solito balletto di cantanti e batteristi (Kusch ormai è irrecuperabile): a seguire tre dischi non proprio memorabili, passando per una collaborazione con Mike Terrana. Per rifiatare prima di rilanciare il trademark dei Masterplan, Grapow ha pensato bene di appoggiarsi al suo glorioso passato. Molti fan saranno curiosi di ascoltare i nuovi arrangiamenti di brani come “The Chance” e “The Time Of The Oath”, con la line up dei Masterplan – che vede al basso anche l’ex-Stratovarius Jari Kainulainen e il recente acquisto Kevin Kott (At Vance) alle pelli – ma il risultato è mediocre.

Non ci sono trovate particolari atte a “svecchiare” i brani (ma ce n’è davvero bisogno?), se non le accordature delle chitarre come vanno di moda oggi, abbassate e depresse, senza contare l’assenza di un doppio axeman. E dire che il malmsteeniano Grapow ha regalato buona musica con i sei album (1991-2000) assieme alle zucche di Amburgo: dopo la parentesi simil-AOR di Pink Bubbles Go Ape e Chameleon, chi vorrebbe replicare che full-length come The Time Of The Oath o The Dark Ride non siano capolavori power metal? E non si è citato Master of the Rings, da cui sono tratte “Mr Ego” e “Still We Go”, forse i pezzi meglio interpretati da Altzi. Mancano hit come “Crazy Cat” (impossibile coverizzarla) e una traccia dall’ottimo Better Than raw (questo è un album di Kusch e Weikath) ma bisognava scendere a patti con le royalties e il fatto che i Masterplan non suonano catchy come gli Helloween d’inizio anni Novanta. Altzi è fuori luogo sulle linee vocali di Kiske e anche con quelle di Deris fatica a reggere il confronto; se la cava in una song oscura come “Escalation 666”, ma in “Music” è inascoltabile. Questi due brani rappresentano in estrema sinstesi le coordinate degli Helloween che furono, solarità e potenza insinuante.
Che dire, infine, dell’epilogo dell’album? Invece di chiudere in bellezza con “The Dark Ride”, manifesto di Grapow con una sezione solistica dalla tecnica eccellente, si è deciso di inserire “Take Me Home”, hapax nella discografia degli Helloween, che nel ’94 sembrò volessero omaggiare Steve Vai con un simile brano ammiccante.

In definitiva PumpKings è un tentativo malriuscito di guardare al passato tentando di attualizzarlo senza motivo. Sono incappati in questa tentazione anche gli stessi Helloween con Unarmed e M. Michael Kiske con Past In Different Ways, ma con risultati meno disastrosi.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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