Recensione: Quest for Glory

Di Leonardo Arci - 20 Giugno 2006 - 0:00
Quest for Glory
Band: Drakkar
Etichetta:
Genere:
Anno: 1998
Nazione:
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62

Eccoci a recensire il disco di esordio dei nostrani Drakkar, band milanese che nel 1998 ottenne un interessante contratto dalla Dragonheart Records dopo che questa valutò positivamente i precedenti demo autoprodotti (Sailing Alive del 1996 e soprattutto We Sail at Dawn dell’anno seguente). La line up che dà vita a questo prodotto, in seguito ripetutamente modificata, vede alla chitarra Dario Beretta (writer della rivista Metal Hammer), Christian Fiorani alla batteria, Alex Forgione al basso e Luca Cappellari dietro al microfono, coadiuvati da Emanuele Rastelli dei Crown of Autumn alle tastiere.

Proviamo ad indicare le coordinate stilistiche lungo le quali si sviluppa il sound presentato da questo gruppo: sebbene il sottoscritto non sia un amante delle classificazioni, il genere proposto può considerarsi un sufficiente lavoro a cavallo tra power di stampo tedesco e classic metal di matrice anglosassone. I gruppi ai quali i nostri si ispirano sono diversi, si va dai pluriosannati Helloween per quanto riguarda le velocità e l’uso della doppia cassa, ai maestri Iron Maiden per quanto concerne la strutturazione dei riff portanti, agli Hammerfall per quanto attiene alla definizione dei cori, a tratti molto epici e d’impatto. Le citazioni tuttavia non si fermano qui, ne parleremo in seguito in un rapido track by track, non prima di aver fatto alcune valutazioni generali: innanzitutto il frontman Luca Cappellari offre una prestazione piuttosto altalenante, dimostrando di non essere sempre a proprio agio nell’interpretazione delle linee vocali e nella gestione della propria voce (notate le difficoltà nell’eseguire certi passaggi nella traccia Dragonheart), sebbene questa sia decisamente gradevole per timbrica. Altro punto dolente è la produzione, e in particolare il missaggio finale, dove le chitarre sono assumono un suono poco incisivo e mal bilanciato con il resto della sezione ritmica. In sostanza, i suoni sono roboanti e vigorosi ma troppo spesso sterili dal punto di vista della qualità: si ha la sensazione che ci si perda nella ricerca della maestosità e della epicità a tutti i costi ma che dietrosi celino poche idee mal amalgamate, quasi a voler attribuire sostanza a quella che pura e semplice forma.

Dopo l’intro di rito si parte con un riff grezzo delle chitarre che introduce Coming from the past, una traccia che definirei insipida se non fosse per il chorus centrale decisamente epico, molto simile ad alcune soluzioni proposte dai The Storyteller nell’ultimo Underworld. Stesse considerazioni possono essere avanzate per la successiva Dragonheart, nella quale occorre segnalare, come già anticipato, l’insufficiente prestazione del singer: peccato, perché le linee vocali non sono malvagie. Follow the prophet si assesta su ritmi decisamente più lenti, la voce di Luca cambia intonazione e qui dimostra le proprie potenzialità. I ritmi poi cambiano grazie ad un lavoro egregio alle pelli, ma punto di forza di questa canzone è senza dubbio il chorus, a metà strada tra epicità dei Freedom Call e gusto melodico dei Gamma Ray. Under the armor vede l’esordio delle tastiere che conferiscono alla composizione una maestosità piuttosto gradevole: le linee vocali accennate dal singer riportanto alla mente ‘Lord of the flies’ degli Iron Maiden. Segue la eccessiva The walls of Olathoe con i suoi 14 minuti di durata: la canzone vive su un articolato riffing di chitarra ben supportato da tutta la sezione ritmica, e dalle tastiere sempre relegate ad un ruolo secondario di rifinitura. La prestazione del singer è pienamente convincente, dimostrando estensione di un certo rilievo ed offrendo una prova pulita e degna di nota. Wings of fire esordisce con un breve arpeggio chitarristico che lascia spazio al cantante che fa bella mostra di sé con un prova emozionante e teatrale. Qui inizia un trittico (Morella, Quest for glory, Raising the banners) che non attira più di tanto l’attenzione, il motivo risiede nel fatto che i chorus mancano del giusto appeal, strutturalmente i brani non presentano grosse novità (lo schema compositivo è piuttosto abusato) e l’effetto noia inizia a comparire minaccioso. L’album si chiude con un’outro che nulla aggiunge al disco.

Che dire di questo lavoro? La band dimostra buone ma non eccelse qualità tecniche, il songwriting è alquanto derivativo (ma essendo un debut è un difetto sul quale potremmo anche sorvolare), il vero punto debole a nostro avviso risiede nella qualità complessiva del prodotto, poco incisivo e alquanto monotono della riproposizione dei soliti schemi compositivi triti e ritriti.

Tracklist:
1. Welcome on board (intro)
2. Coming from the past
3. Dragonheart
4. Follow the prophet
5. Under the armor
6. The walls of Olathoe
7. Wings of fire
8. Morella
9. Quest for glory
10. Raising the banners
11. Towards home (outro)

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