Recensione: Question of Divinity

Di Stefano Ricetti - 22 Maggio 2016 - 12:30
Question of Divinity
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2016
Nazione:
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I Matthias Steele sono un combo americano che prende piede nel 1985, in quel di Rhode Island, sulla spinta di tre metallaroni compagni di scuola, secondo la più classica delle combine in ambito HM. Il trio in questione schiera: Tony Lionetti (basso e voce), Nino Trovato (batteria) e Todd Glencarella all’ascia. Pleonastico scervellarsi per cercare di capire le origini geografiche dei nostri…

La loro proposta è un heavy fucking metal sporco e diretto, che raramente eccede in termini velocistici, accostabile, a grandi linee, come già correttamente scritto da altre parti, agli inglesi Cloven Hoof e ai californiani Tyrant nella loro accezione più oscura, sebbene va precisato che la classe dei due ensemble appena citati sia di grana superiore rispetto a quella dei tre italoamericani.    

Una serie di concerti fra Rhode Island e il Connecticut permette alla band di farsi le ossa e uscire sul mercato nel 1987 con un demo omonimo, contenente sette tracce. Qualche inevitabile scossone all’interno della line-up non riesce a fermare la marcia dei guerrieri yankee e nel 1992 è la volta del debutto  su full length: Haunting Tales of a Warrior’s Past, disco dalla notevole copertina riproposto dalla stessa Minotauro Records su Cd in questo 2016 con in aggiunta di una traccia in più. Le cronache riportano qualche gig qua e là da parte della band e poi l’apparente oblio fino al come back del 2007, non a caso con un secondo album intitolato proprio Resurrection, anch’esso oggetto di reissue Minotauro con bonus. Accanto al “vecchio” Lionetti torna il fido Trovato dietro i tamburi e alla chitarra entra Jami Blackwood.

E’ del 2010 il concerto nella loro città natale, Westerly, per festeggiare i venticinque anni di attività. Il buon responso innerva nuova linfa ed entusiasmo nel power trio e fra il 2009 e il 2010 vengono scritti un po’ di pezzi nuovi, presso i Redbone Recording Studio, che andranno poi a costituire la colonna vertebrale del nuovo album, oggetto della recensione, intitolato Question of Divinity, che vede la luce in questo 2016 sotto l’egida dell’italianissima label Minotauro Records. Ad accompagnare il disco, dalla splendida copertina, un libretto di dodici pagine con tutti i testi e alcune foto della band, in posa e alive.           

L’opener Question of Divinity si dimena fra chitarrone pesanti e va a costituire l’ideale biglietto da visita per l’omonimo album. Forte la componente dinamica degli yankee in questo brano, ovviamente all’interno del loro ambito artistico, va chiarito che non si è certo alle prese con i Primal Fear di Delivering the Black, tanto per intenderci. La tonalità vocale del singer Tony Lionetti risulta essere particolarmente verace e naturale, anche se di certo non irresistibile: un sorta di mix fra il nostro Morby un po’ spompato e il Geoff Tate dei Queensyche che furono, con anche quest’ultimo non al meglio della forma. Dalla sua il cantante dei Matthias Steele ci mette il credo in quello che fa, cosa non da poco, anche considerando l’età. World of Sin passa senza impressionare e i nostri iniziano di nuovo a “menare” sulle note della pesante Freedom.

Nulla di speciale nemmeno My Pain, episodio insistito che non riesce a graffiare come dovrebbe mentre la strumentale March of the Dead, dalla fortissima componente Black Sabbath colpisce al bersaglio grosso, fra cambi di tempo e rimandi al passato remoto. Altra sorpresa in positivo la successiva The Boatman, canzone ove l’aura epica degli ‘Steeler  fuoriesce in tutta la sua connotazione al color nero e… il Leonetti cerimonioso mette ko il Leonetti quando forza oltremisura! Dopo la prima parte aulica è la volta di qualche minuto di marca HM senza ma e senza se, sostenuto da riff ondivaghi provenienti dagli anni Settanta.

Davvero tirata troppo per le lunghe It’s a Way of Life e si termona, per quanto afferente gli inediti, con No Solutions, traccia che parte bene fra melodia assortita per poi svilupparsi meglio grazie a dei refrain in your face azzeccati, sorretti dalla mannaia di Jami Blackwwod. Chiusura che riprende l’inizio, dolce, della canzone. Spazio poi a due brani dal vivo: Worthless Soul e Supersonic Man, entrambi tratti dal 25th anniversary show, ben registrati e i grado di dare la misura della carica live dei Matthias Steele. Entrambi, stilisticamente parlando, perfettamente in linea con la incorruttibile  tradizione del combo di Westerly, Rhode Island, nonostante il secondo provenga dalla penna del solo Jami Blackwood.  Question of Divinity non cambierà di certo le sorti della storia dell’HM ma va a collocarsi nel novero di quegli album che, in maniera lusinghiera, testimoniano con i fatti che certe sonorità, non di facilissimo appeal, non moriranno mai.

 

Stefano “Steven Rich” Ricetti       

 

 

MATTHIAS STEELE BAND

 

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