Recensione: Raise

Di Matteo Lasagni - 17 Giugno 2005 - 0:00
Raise
Band: Karelia
Etichetta:
Genere:
Anno: 2005
Nazione:
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65

Pieno di belle speranze mi avvicino a questo secondo album dei Karelia, che con il loro debut “Usual Tragedy” avevano sfornato un eccellente lavoro symphonyc speed ricco di sfumature e personalità. Così con questo nuovo “Raise” viene naturale aspettarsi un proseguo ideale dell’esordio, magari con qualche orchestrazione ancora più “pompata” e la medesima attitudine verso le belle melodie e la velocità ritmica. Ma le facili illusioni sono fatte proprio per essere smentite, così “Raise” evolve sì il sound della band, ma nel senso più intimo e introspettivo a cui forse non eravamo pronti. Infatti calano drasticamente la velocità d’esecuzione e la propensione per cori diretti e facilmente assimilabili, in nome di una marcata ricerca sinfonica che spesso e volentieri utilizza tempi cadenzati ed atmosfere soffuse. Il tutto viene spruzzato da una dose molto abbondante di malinconia, che permea l’intero album grazie a liriche profonde e toni quasi sempre minori. E proprio questo elemento è il pregio ed al contempo il difetto principale di “Raise”. Pregio perché in fondo dona un mood oscuro e triste al cd, che in serate particolarmente “interiori” potrebbe conciliare perfettamente i vostri stati d’animo, mentre è un difetto perché quest’ambientazione così cupa in pratica limita al lumicino gli episodi open-air, che in un disco power generalmente rappresentano la vera ossatura. Detto questo la prestazione della band è abbastanza godibile, sorretta da una produzione di buon livello e da qualche idea invitante. Le vocals di Matthiew Kleiber alternano, come in “Usual Tragedy”, timbriche alte e power-oriented ad altre più basse e profonde, ma questa volta gli eccessi baritonali presenti nel debut vengono per fortuna abbandonati in favore di tonalità più naturali. Ma certo il nuovo platter pecca di aggressività, soprattutto per quanti avevano apprezzato l’album d’esordio.

Rimango quasi spiazzato di fronte ad un’opener come la title-track, che comunque dopo svariati ascolti si dimostrerà effettivamente una delle hit del disco. Da gustare lentamente nel suo incedere pesante e maestoso, in particolare nella sezione centrale in cui l’effetto malinconico raggiunge il suo apice in un lacrimoso giro di piano, delicato ed intenso, coinvolgente e spirituale. Ma escludendo questo brillante episodio iniziale, la prima parte del cd non rivela grandi qualità, sempre in bilico fra una sezione ritmica parca in fatto di sprint e melodie ricercate, ma non molto azzeccate. Uniche note positive per la veloce “The Hermit”, dotata finalmente di un po’ di brio e di linee vocali più ariose. La seconda parte invece presenta qualche motivo d’interesse in più, a partire dalla gradevole “Cross And Crescent” che, pur muovendosi ancora su tempi rallentati, si scioglie piacevolmente in un refrain di buona fattura. La successiva “Tearful Clown” è invece una splendida song, rapida, solenne e dominata da un chorus ultra-melodico e dolcissimo. Sicuramente il pezzo che mi ha colpito di più, anche in virtù dell’esemplare lavoro di chitarra di Erwan Morice che sottolinea ed amplifica l’effetto di una canzone davvero ben costruita, lunga ma per nulla prolissa. Anche “Unbreakable Cordon” si difende bene, in un turbinio di cambi di tempo e giochi vocali che lasciano un buon feeling senza esagerare né impressionare. Anche in questo caso spicca la buona scelta melodica nel ritornello, che nella pimpante “Coming Turn” ritrova conferma in un brano delicato e d’impatto. Ottima infine la scelta della cover “High Hopes”, tratta da “The Division Bell” dei maestri Pink Floyd. Le atmosfere cupe si sposano alla perfezione con il resto dell’album e l’interpretazione metallica dei Karelia rende giustizia ad un pezzo di grande rilievo storico come questo.

In pratica potrei definire “Raise” come una mezza delusione per chi, come me, si aspettava un’evoluzione del sound power-speed dei Karelia di “Usual Tragedy”, ma in realtà il disco, per quanto dedito a sonorità più soft, dimostra una discreta qualità, che non può non essere considerata. A voi l’ardua scelta.

L’artwork è quantomeno discutibile, ma sicuramente originale e fuori dagli attuali schemi power.

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