Recensione: Raising Fear

Di Federico Mahmoud - 5 Aprile 2005 - 0:00
Raising Fear
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Anno: 1987
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90

Benvenuti nel favoloso mondo degli anni ’80! Era di lustrini, spandex, capelli cotonati e pose ammiccanti ma anche di borchie, denim e chitarre taglienti come rasoi: l’era degli Armored Saint.
Prodi alfieri del power metal made in U.S.A. – la cui ricetta, ad oggi, pare dimenticata dai più – i nostri si formano nel lontano 1981 con intenti risolutamente battaglieri, peraltro ribaditi con classe in capisaldi della scena americana come il debutto March Of The Saint o il successivo Delirious Nomad.
Raising Fear è il terzo capitolo nella storia del combo di Los Angeles, l’ennesima testimonianza di forza e qualità che ha però mancato la consacrazione definitiva di fronte al grande pubblico, proprio in un periodo in cui il grande salto sembrava a portata di mano; tutto ciò nonostante un crescente interesse da parte dei media e un tour di successo a supporto dei vecchi amici Metallica (i due gruppi erano emersi insieme dall’underground di L.A.), spesso e volentieri messi in ombra dalle esibizioni infuocate di cui i Saint erano maestri.
Successo commerciale o meno, Raising Fear resta un platter che gli appassionati conoscono a memoria e custodiscono gelosamente nella propria collezione, dove senza dubbio brilla di luce intensa ancora oggi, a quasi vent’anni dalla sua uscita.

Appoggiata la puntina sul vinile, trascorrono pochi secondi e la spettacolare title-track battezza nel migliore dei modi un lp inciso con il sudore e il rombo di motociclette elaborate in sottofondo. L’opener è ideale per riassumere le peculiarità del sound targato Armored Saint: heavy metal allo stato brado, diretto e potente, costruito sul riffing dinamitardo e raffinato di Dave Prichard (axeman di gran classe sulla scia del Criss Oliva più ispirato) e plasmato da una sezione ritmica che non sbaglia un colpo, specie se al basso c’è un certo Joey Vera (in futuro membro di spicco dei Fates Warning), musicista per cui molti colleghi avrebbero firmato carte false. Se a tutto ciò si aggiunge la prestazione fantastica di un John Bush con tanta grinta e qualche capello in più, il gioco è fatto.
La ricetta che aveva già decretato il successo del predecessore Delirious Nomad – chitarre a tutto spiano e refrain tremendamente avvincenti – è qui ripresa e perfezionata sulla scorta di un’ispirazione in sede di songwriting che non ammette visibili cedimenti: serve dunque a poco insistere sulla qualità di brani come Out On A Limb (così coinvolgente nella sua linearità), l’emozionante Book Of Blood o Chemical Euphoria (il cui riff portante è inciso a fuoco nell’amarcord dell’hard & heavy a stelle e strisce), composizioni che divengono immediatamente classici del repertorio del four-piece californiano.
La band si destreggia con bravura tra pesanti escursioni metalliche e passaggi più meditati, come la struggente Isolation o Saturday Night Special (cover di lusso dei mai troppo lodati Lynyrd Skynyrd, un esame superato a pieni voti), dimostrando versatilità e coraggio nell’imboccare strade raramente battute dai colleghi più blasonati. Si tratta ad ogni modo di episodi isolati atti a stemperare la generale pesantezza del disco, le cui radici affondano per lo più in soluzioni tipicamente battagliere come vuole la tradizione della vecchia scuola power metal: degne di menzione in quest’ambito le varie Legacy, Terror e lo speed-anthem Underdogs, tre schegge esplosive che richiamano alla mente la splendida copertina confezionata per il lavoro, che vede il Santo Corazzato intento a devastare Hollywood con tanto di colate d’acciaio fuso e scariche elettriche a profusione.

Raising Fear passerà alla storia come l’amaro commiato di David Earl Prichard, stroncato il 27 febbraio 1990 dalla leucemia. Musicista di grande talento, Prichard condivideva con pochi altri il dono di saper forgiare riff granitici di grande presa sull’ascoltatore, con un occhio sempre attento alla melodia – vero marchio di fabbrica del biondocrinito chitarrista. I suoi assoli, memori di un mentore d’eccezione come Randy Rhoads, sono una gioia per le orecchie: ascoltare Out Of The Limb o Book Of Blood (superbo il tortuoso lead centrale) per credere.
L’oblio è una punizione ingiusta per un piccolo grande eroe della 6-corde: la vita di David Prichard si è spezzata prematuramente, ma le sue gesta risuoneranno per sempre tra i solchi di questo lp. I più nostalgici avranno già recuperato con un pizzico di malinconia i vecchi vinili della band, per gli altri l’invito è quello di riscoprire una band fondamentale del panorama a stelle e strisce: solo allora la missione di questa recensione potrà dirsi compiuta.

Track-list:
01 Raising Fear
02 Saturday Night Special
03 Out On A Limb
04 Isolation
05 Chemical Euphoria
06 Crisis Of Life*
07 Frozen Will / Legacy
08 Human Vulture
09 Book Of Blood
10 Terror
11 Underdogs

*nota a margine: i possessori della ristampa in cd (curata dalla Metal Blade) potranno godere di una traccia in più, la catchy Crisis Of Life (la cui posizione varia a seconda delle edizioni) che non aggiunge né toglie nulla al valore del disco.

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