Recensione: Ravens

Di Tiziano Marasco - 6 Giugno 2014 - 9:31
Ravens
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Anno: 2013
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58

I Desert Wizard sono quattro simpatici freakettoni ravennati dediti, come gran parte dei gruppi sotto contratto con la black widow, ad un revival del rock settantiano. Encomiabili per la prolificità (3 full-length in 7 anni di vita per una band di nicchia sono uno sproprosito), tornano in pista con questo Ravens.

Si è detto freakettoni, e il look non smentisce certo tale espressione, d’altro canto bisogna notare come il sound proposto dai connazionali sia decisamente roccioso, supportato soprattutto da chitarre che si rifanno alle sonorità del proto hard rock e del primo heavy metal sabbathiano (quello di electric funeral). Tali chitarre si mischiano poi ai liquidi toni di hammond e mellotron, dando vita ad un sound decisamente affascinante, suggestivo ed oscuro. 

Se le premesse sono buone tuttavia, i risultati sono decisamente altalenanti, e per quanto i nostri abbiano ricevuto essenzialmente buoni responsi dalla critica specializzata (laddove specializzata denota un orientamento prog tout-court) a noi pare che Ravens altaleni verso il basso.

Due i difetti essenziali di questo disco. Da un lato gli intrecci vocali tra i tre cantanti risultano efficaci, pure la tessitura vocale non nasconde una certa povertà di ispirazione in sede compositiva. La strofa portante di Freedom ride risulta infatti banale, altrove invece i maghi del deserto si esibiscono in un cantato strascicato che vorrebbe sembrare sinistro e malato, finendo purtroppo per risultare monotono (Babylonia, Burn Into The Sky). D’altro canto lo strascicare le proprie composizioni sembra essere il vero limite dei Desert Wizards. Spesso e volentieri infatti i nostri procedono spediti su un unico riff per due minuti buoni, probabilmente con l’unico intento di portare le loro canzoni oltre i sei di durata, perché così fa prog. Un atteggiamento che può risultare buono dal vivo, ma deleterio in studio.

Altrove poi le canzoni non paiono compatte, vale a dire  che sono scisse in due blocchi distinti messi l’uno vicino all’altro, cosa che produce spesso emozioni contrastanti e tocca il culmine in Bad Dreams, snervante nella prima metà e vincente nella seconda. Volendo tornare agli aspetti positivi, non possiamo non citare Blackbird come un ottimo lento, così come Vampire Queen si rivela un pezzo davvero malato e non noioso. Il colpo di genio invece prende forma sulle note erratiche di Back To Blue, una sorta di Subterrean Homesick Alien dei Radiohead interpretata da un gruppo hard rock dei Settanta, con alla voce un cantante meno depresso e molto più maligno di Thom Yorke. Se i maghi riusciranno a fare un mantenendosi su queste linee, ci sarà veramente da drizzare le orecchie.

In buona sostanza Ravens, come i suoi predecessori, si indirizza ad un pubblico di nostalgici o comunque agli affezionati di un genere estremamente specifico, mentre per tutti gli altri risulterà immancabilmente ripetitivo, seppur particolare. Ancora una volta vale l’allegoria del minestrone saporito ma un po’ indigesto.

Tiziano “Vlkodlak” Marasco

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