Recensione: Rebirth

Di Ottavio Pariante - 28 Giugno 2011 - 0:00
Rebirth
Band: Overtures
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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72

L’Italia oltre ad essere terra di grandi tradizioni e artisti di ogni tipo di natura, è fucina di grandi talenti anche nel

campo metal.
Escludendo i grandi nomi, ci sono nell’underground italiano alcune band veramente valide che, a causa del fenomeno che

ultimamente vede le nostre case discografiche puntare oltre lo stivale con trascurabili risultati, sono costrette a cercare

altrove la propria fortuna.
Il beffardo destino ha coinvolto anche i goriziani Overtures, band di heavy-power metal attiva dal 2003 con alle

spalle un disco sulla lunga distanza, “Beyond the waterfall” pubblicato nel 2008.
La band che vede alla voce Michele Guaitoli, Marco Falanga e Daniele Piccolo alle chitarre, Luka

Klanjscek al basso e Andrea Cum alla batteria, visto lo scetticismo tipicamente italiano, decide nell’ottobre del

2010 di accettare le avances di una piccola etichetta greca che ha fiutato l’affare, ovvero la Sleaszy Rider Records.

Legandosi a essa arriva quindi la possibilità di collaborare con personaggi di tutto rispetto, sia nel campo della

registrazione come Mika Jussila, già sound-engineer per Children of Bodom, Nightwish, HIM, Lordi, Edguy e altri ai Finnvox

Studios di Helsinki, sia nel campo degli ospiti sul disco, dove sono presenti Rafahell degli italiani Elvenking e Akos Komodi

degli ungheresi Halor.

Il risultato finale è sicuramente molto interessante: i dieci pezzi, più una bonus track, che compongono questo

Rebirth mettono in risalto una band che riesce a spaziare con naturalezza tra composizioni tipicamente power ad altre

prettamente hard rock, puntando tutto su melodie molto dirette, efficaci sin dai primi ascolti.
Prima di entrare nello specifico, è importante fare un elogio alla produzione pressoché perfetta. La voce cristallina del

cantante Michele Guaitoli rappresenta il valore aggiunto della band e l’utilizzo sapiente delle tastiere, suonate dallo

stesso Michele, regala ad ogni singola traccia un’eleganza inaspettata che saprà colpire e ammaliare l’ascoltatore.
Si comincia con Here we Fall opener dal minutaggio non eccessivo, dove la sessione ritmica compie un gran lavoro

donando al pezzo un discreto impatto, anche grazie a un ritornello veramente godibile.
Qualche riga in più, la vorrei spendere per la seconda traccia, Fly, Angel, con il suo dolce piano, posto in apertura

del pezzo, catapulta l’ascoltatore in un’altra dimensione, lo seduce con la sua malinconia e poi lo scuote con la sua rabbia.

Scelta anche come primo e unico videoclip ufficiale del disco, Fly, Angel si distende su ritmi medio-alti, sempre

sostenuta da un precisa e perfetta sessione ritmica e da un ritornello fresco e vibrante, rappresenta uno dei punti di forza

del disco.
Tralasciando le note biografiche, puntando tutto sul lato prettamente musicale, che gli Overtures non siano degli

sprovveduti, lo si era capito subito. La loro tecnica e la loro versatilità esce fuori allo scoperto anche nella successiva

You can’t spit on me. Un brano caratterizzato da un deciso approccio hard-rock che si distacca prepotentemente dal

contesto fino a ora proposto, mettendo in risalto senza troppi fronzoli l’attitudine di questa band a scrivere canzoni, oltre

che di notevole fattura, anche di diverso approccio stilistico.
Interessante anche la successiva Delirium, con il suo organo posto ad anticamera del pezzo per tessere atmosfere

sinistre e misteriose: abbiamo a che fare con un pezzo molto curato, dagli elaborati arrangiamenti che donano al pezzo una

consistenza notevole, al suo ritornello sempre gradevole ed efficace.
La prima parte del disco scorre senza sbadigli e senza indugi mettendo in risalto una band che ha una gran voglia di far

uscire fuori tutto il suo potenziale sbagliando poco e affidandosi a soluzioni ben consolidate nel tempo, anche se

leggermente troppo abusate.
Sicuramente, il verbo “osare” è nelle corde nella band, peccato che non venga sempre rispettato. Dalla limitata volontà di

mettersi del tutto in gioco, escono fuori pezzi come Farewell, The prophecy ed Easy, sicuramente

discrete canzoni, ma non aggiungono e non tolgono niente essendo, anche dal punto compositivo, un gradino sotto rispetto le

altre composizioni.
Notevole invece è l’ottava traccia My name is fear, un pezzo dall’impatto terremotante che nasconde nel suo interno un

rabbia inesplosa incredibile. L’approccio vocale di Guaitoli è semplicemente fantastico e il ritornello, anche se poco in

evidenza, è fresco e avvincente.
Siamo quasi alle battute conclusive di questo Rebirth, non avendo ascoltato il lavoro precedente non posso confermare

che sia proprio l’album della consacrazione, ma quello che l’ascoltatore avrà tra le mani è veramente ben fatto e riuscito.
La conclusiva Deamons, è un pezzo dalla struttura veramente intrigante pregna di atmosfere contrastanti e deliranti,

dalle melodie semplici ma accattivanti: in questa traccia la performance complessiva della band è semplicemente sbalorditiva

e mantiene vive tutte le cose buone che sono state fatte nell’intero percorso dell’album.
Ultima, in ordine cronologico ma non d’importanza, la versione acustica del sesto pezzo dell’album Not too late,

rivisitazione in salsa dolce della versione originale che, grazie ad un ritornello quasi sospirato, chiude degnamente un

album che saprà conquistare gli scettici e aprire nuovi orizzonti a una band dalle ottime potenzialità ancora non del tutto

espresse.
Promossi quindi senza riserva.

Ottavio “octicus” Pariante

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relativo

Tracklist:
1. Here we Fall
2. Fly, Angel
3. You can’t spit on me
4. Delirium
5. Farewell
6. Not too late
7. The prophecy
8. My name is fear
9. Easy
10. Deamons
11. Not too late (Acqustic Version) Bonus Track

Line-up:
Michele Guaitoli – voce
Marco Falanga – chitarra
Daniele Piccolo – chitarra
Luka Klanjscek – basso
Andrea Cum – batteria

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