Recensione: Red Moon Rising

Di Eric Nicodemo - 23 Maggio 2014 - 7:00
Red Moon Rising
Band: Perfect View
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2014
Nazione:
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77

 

 

Non è un segreto: il tricolore italiano ha ritrovato nuovo vigore nel firmamento del rock’n’heavy, dimostrando tutto il suo carisma grazie al sudore di artisti che, pur non riconosciuti a livello internazionale, trasudano classe e carisma così come avvenne in passato (Elektradrive docet).

Detto questo, la speranza è che i Perfect View si aggiungano a questo rispettabile gruppo di eroi nostrani, speranza che non dovrebbe essere disattesa viste le ottime premesse del combo.

Per quanto riguarda i soliti accenni storici, non c’è molto da dire sebbene i Nostri non siano nemmeno gli ultimi arrivati: il progetto ha inizio nel 2008 ad opera del singer Max Ordine, del chitarrista Francesco Cataldo e del batterista Luca Ferraresi.

In origine, Ordine e Cataldo appartenevano agli Xteria (open act dei Symphony X nel 2000) e i vari membri coinvolti nel progetto Perfect View avevano collaborato con artisti quali Olaf Thorsen (Vision Divine, Labyrinth), Roberto Tiranti (Labyrinth), Alex DeRosso (Dokken, Dark Lord) e la tribute band dei Kiss chiamata Electric Circus.

Avrete capito che i Perfect View non sono scolaretti nati e cresciuti a suon di pop farlocco ma musicisti che dimostrano in questo nuovo “Red Moon Rising” gusto e sensibilità per le melodie d’oltreoceano, fascinose ed eleganti, come già visto nel debutto “Hold Your Dreams”.

Ed allora, come esige la nuova ondata di melodic rock, “Where The Wind Blows” racchiude tutta la magia di un genere che ha fatto scuola: cori solari avvolti dai suoni enfatici della sei corde, capace di trasportarci lungo sconfinate highways, verso mete avventurose e cariche di adrenalina. D’altronde, le note di “Where The Wind Blows” non sono altro che questo: un intenso e personale revival, che, come una foto scattata nell’attimo, riesce a materializzare un panorama musicale emozionante come un sogno vissuto ad occhi aperti. E tutto questo è reso possibile anche grazie all’incanto di una pioggia di scintillanti assoli, custoditi nel castone di questo suggestivo brano.

Il ritornello pulsante di “By My Side” è immediatamente il secondo punto di forza di questo platter: è un viaggio attraverso ricordi sopiti, un sodalizio tra tasti gioiosi e chitarre frizzanti, mitigato da brevi scorci in cui la voce malinconica di Max Ordine risuona lontana. La carta vincente è, infatti, la performance brillante del frontman, perfettamente integrata nell’intelaiatura tastiere – chitarra del brioso repeat.

Una maggiore inflessione hard’n’roll penetra nel refrain cadenzato di “Room 14”, creando un loop semplice ma ricco di verve. Immancabile l’inciso solista che espande il contesto compositivo, rendendolo più complesso e articolato.

Sempre in grande spolvero l’ugola del nostro Max, ideale punto d’incontro tra i masters dell’epic metal all’italiana (Roberto Tiranti, Fabio Lione), i colossi del rock melodico internazionale (Steve Perry, Bobby Kimball, Don Dokken) e indimenticabili cantanti di culto (Tony Mills).

La successiva “Slave To The Empire” inizia tuffandosi con calore nel classico dominio dei Place Vendome & Co. : passione, forza e classe. I backings sono alfieri di valore ma il chorus seppur accorato e avvolgente non è vibrante come l’opener, pur donandoci un pezzo smagliante (che si fa perdonare un playguitar solista dinamico ma un po’ macchinoso).

Il ricordo (come insegnava Malmsteen) è una dolce occasione per plasmare canzoni intense e al contempo soavi: “I Will Remember” non si esime da questo topos e, per l’occorrenza, scomoda vibrati tristi e sofferenti, creando un palcoscenico sul quale inscenare la prima ballad, condotta sulle note di un delicato piano. Ancora una volta il protagonista indiscusso è il main vox, capace di un’estensione vocale che non è dimostrazione di tecnica fine a se stessa ma di grande, ardente passione per l’armonia della West Coast.

Da ora in poi, il registro gioca alternando parti più cariche ed energiche ad innesti maggiormente vellutati e poetici.

Il primo esempio di questa dicotomia ci è offerto da “In The Name Of The Father”, dove nasce un contrasto tra il riff nervoso della sei corde e le melodie tenui delle tastiere, disposte segretamente dietro le quinte del palinsesto compositivo. Il riff derivativo e un ritornello un po’ anonimo decretano l’insuccesso di un pezzo che avrebbe potuto regalare ben altre emozioni, mancando clamorosamente il bersaglio.

L’alterco tra melodia e ruvido hard’n’roll prosegue e si fa più marcato nel motivo guida di “Living In Disguise”: i synts d’inizio vengono contrastati da un robusto, incombente pattern mentre il main vox modula il chorus su una melodia alta ma lieve, senza troppi sussulti.

Up-tempo venato da tastiere per “Dead End Street”, dove le linee vocali si tingono di un lirismo michael kiskeniano. Una canzone che si fa apprezzare per gli innesti vari e dinamici, sebbene nel chorus si avverta distintamente la mancanza di un pattern catchy o memorabile, elemento irrinunciabile nella canzone AOR di successo.

Quando giungiamo ad “Holdin’ On” sembra che il riciclo sia un processo ormai irreversibile e non scongiurabile ma aspettiamo a dirlo: il pattern d’apertura (incedente e sfruttato) è un accompagnamento predefinito che potrebbe lasciare indifferenti e far desistere dall’ascolto, ma non vi accorgerete di questo “dettaglio” perchè la melodia penetrante del chorus vi avrà ormai rapito, mentre inermi verrete trascinati nelle sinuose spire della sue hooklines.

E se il chorus non potrebbe convincervi a pieno, ogni esitazione sarà spazzata via quando verrete catturati a vostra insaputa dagli struggenti assoli di Francesco Cataldo, in grado di ammaliare come il bagliore di un tramonto rosso fuoco che, riflettendosi, vi seduce, accecando la vista e inebriando i sensi.

Dopo l’aggraziata armonia di “Holdin’ On”, ci pensa “In A Blink Of An Eye” a somministrarci un vecchio riff aerosmithiano. Ma l’incursione nel vecchio rock è solo una scusante per allestire una trama su cui Max Ordine eleva il suo canto appassionato, coadiuvato da suadenti, irresistibili background vocals. In questo caso, lasciate ogni reticenza perchè il valore complessivo del ritornello e la riscoperta del ruvido hard’n’roll non si possono rifiutare, se vengono unite con l’estro e il brio dei Nostri, capaci di far convivere l’anima più ribelle del rock e quella più raffinata e matura del Adult Oriented Rock.

In chiusura, se non era chiaro il concetto, i Nostri omaggiano i beniamini Toto, con la rilettura di “Home Of The Brave” (da “The Seventh One”, 1988).

Al di là della cover (vista anche l’avversione del sottoscritto per queste operazioni), è innegabile la carica che questi ragazzi possono infondere anche ad un semplice remake: insomma, non sono i Toto ed è difficile eguagliare l’eleganza vellutata di Joseph Williams, ma quello che fanno i Nostri lo fanno sempre con grande passione e stile (ascoltare per credere…).

Or dunque, il verdetto: promosso o bocciato?

Partendo dai difetti, non possiamo nascondere che l’album in questione dimostra un punto debole, comune alle recenti uscite: dopo una partenza bruciante, con opener da infarto (“Where The Wind Blows”) e rincalzi di valore (By My Side”, “Room 14”), il disco procede con ottimi brani ma incapaci di far spiccare quel definitivo salto di qualità, necessario all’ambito status di fuoriclasse o, almeno, alla “pienezza” di un otto in pagella (tralasciando la cover, che è da considerasi alla stregua di un bonus inserito per rimpinguare la scaletta).

Questo non toglie che nel finale “Red Moon Rising”, dopo alcuni sussulti, riesce a risollevarsi, ritrovando la giusta rotta grazie soprattutto a “Holdin’ On” e in parte alla gradevole “In A Blink Of An Eye”, la quale si rivela un episodio più che soddisfacente.

E proprio qui stanno i pregi di questa full lenght: le songs citate e i primi irresistibili shots, costituiscono il vanto del combo, assieme alla stratosferica prestazione di Max Ordine, il vero mattatore del segmento (che non sfigurerebbe in un complesso power metal di tutto rispetto).

Un plauso doveroso va anche ad alcuni momenti ispirati del cesello chiatarristico, firmato Francesco Cataldo.

Se non siete amanti del rock melodico ma non avete il cuore di pietra e cercate melodie accattivanti, condite con lirismo d’autore, fate vostro quest’album: certo non basta una gran voce per creare il disco perfetto ma è una ragione che può smuovere pigri ascoltatori e spingere incalliti reazionari, caparbiamente arroccati su altri lidi, a provare le succose delizie dell’eden melodico.

 

Eric Nicodemo

 

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