Recensione: Redefined Mayhem

Di Eric Nicodemo - 28 Aprile 2014 - 12:45
Redefined Mayhem
Band: Holy Moses
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2014
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
80

Il thrash: epitome della rabbia sociale, figlio naturale dell’heavy e prolifico padre dell’estremo.

Questo il veloce identikit di uno dei generi più seminali dell’intero metal, nel quale confluiscono complessi assimilabili grossomodo a due grandi schieramenti: quello americano e quello teutonico (eccezion fatta per i Celtic Frost e pochi altri).

Gli Holy Moses appartengono al filone tedesco e, a partire dal lontano Queen Of Siam” (1986), hanno saputo continuare sulla via tracciata dai padri, ritagliandosi una fetta di ammiratori nel panorama della musica più refrattaria alle mode.

Sempre capitanati dalla “dolce” Sabina Classen, i Nostri non tradiscono il loro credo e ci impartiscono una lezione di sano thrash con il qui presente Redefined Mayhem”, il cui leitmotiv appare in tutto il suo splendore nella diabolica copertina: il lato oscuro dell’anima umana.

Mentre ci apprestiamo a varcare la soglia dell’Ade, le porte per l’inferno vengono spalancate dalla distruttivaHellhound”: un suono disturbante introduce la discesa nell’antro, poco prima di essere travolti dal drumming impetuoso mentre il ringhio di Cerbero (interpretato con rabbia inumana da Sabina) dilania le nostre certezze e mette a nudo il nostro io e le sue debolezze, laddove la chitarra assesta pugnalate violente in questo girone da incubo.

Hellhound” è un pezzo veloce, privo di velleità tecniche o arrangiamenti ricercati, che ripropone una formula ampiamente collaudata e chiama in causa i mostri leggendari del thrash, quali i Destruction e, ovviamente, i maestri del massacro alias gli Slayer.

Il viaggio nel lato più oscuro dell’anima continua con Triggered”, annunciata dalle angoscianti vibrazioni del whammy bar. La voce sibilante d’odio e la dirompente cassa non concedono un attimo di tregua all’ascoltatore, facendoci comprendere che la linea tra lucidità e pazzia, controllo e violenza è sottile e fragile, un equilibrio instabile che può spezzarsi quando pensieri devianti si insinuano nella mente umana (“…I fall back into dreams/into black holes/acting poor roles…”).

Nuove e vivide immagini da incubo si fanno spazio in Undead Dogs”: i mastini (simbolo delle nostre paure) non sono lenti automi ma fameliche chitarre che cercano di strappare i brani della nostra coscienza con andrenalinici assalti. Il refrain è impostato su un midtempo dove Sabina non tratta coi guanti lo spettatore ma urla rabbiosa tutto il suo astio, mettendo a nudo la condizione umana (“…you face your biggest fears/undead dogs/coming to haunt your soul/you fight against yourself/ your suffering is fierce…”).

La successiva “Into The Dark” esaspera quest’atmosfera sofferente e caduca: il crollo psicologico è magistralmente dipinto nel framework del guitar play, il quale si tramuta in pletraggio veloce e affilato nella sezione predominante. La frenesia strumentale annuncia e descrive la caduta in un baratro nero come la pece, dove regna la disillusione e la paura per tutto ciò che ci circonda (“…scared of everything that happens next/slashing around helplessly – falling into unknown depths…”). In questa tenebra spicca il main guitar solista, che inanella un tortuoso labirinto sonoro.

Gli Holy Moses non solo mettono in guardia lo spettatore da se stesso ma anche dal germe del male, che si annida nella società e nel cuore degli uomini: da questo avvertimento nascono la dissacrante “Sacred Sorrows”, che condanna con il suo rifferema guizzante l’autocommiserazione e la brutale “Process Of Projection”, dove la voce della Classen, in bilico tra growl e incontenibile disprezzo, martella con ferocia le liriche pesanti e cadenzate del chorus.

Il refrain di “Process Of Projection” è monolitico e ripetitivo quanto le false accuse lanciate dall’uomo invidioso e tracotante, il quale, carico d’ira come un ordigno, è pronto a far esplodere le proprie colpe e difetti sugli altri (“…you made me sore – you reap what you sow/I’m like a bomb – you light the fuse…”).

Il tema della menzogna ricorre spesso nell’intero album, come lo dimostrano “Fading Realities” e l’autocelebrazione della dissimulazione stessa, intitolata, non a caso, “Liars”.

La chitarra di Fading Realities” scivola in passaggi folli, a spirale mentre la voce ruggisce e la doppia cassa procede con il massacro. La realtà si dissolve per lasciar spazio a verità precostituite, che l’uomo utilizza per giustificare le proprie colpe e, nei peggiori casi, i crimini commessi, distorcendo il senso del bene e del male (“…acts unspeakable suppressed in your mind/delusions become surreal…”).

Liars ha una genesi più complessa di “Fading Realities”: la canzone trae ispirazione dal poema di Heinrich Heine “The Silesian Weavers”, nel quale l’autore contesta la corruzione e le menzogne del sistema secolarizzato (“…stunned by your halo – poisoned by intrigues…blindness is sacred – ignorance is bliss…”). Al di là del topos trattato, “Liars” rimane saldamente ancorata agli stilemi del genere, unendo una ritmica compatta e ossessiva a riff concatenati nel vortice del thrash rage.

L’album si tinge di sangue e l’odore soffocante della morte impesta “Redemption Of The Shattared”, dove la chitarra si contorce in spasmi di dolore come l’individuo che, ormai privato della sua umanità, conduce un’esistenza vuota (“…my body – an abandoned chapel…”), annaspando attraverso le liriche che trasudano sofferenza (“…digging deep into the ground/damp earth soaked with blood…”).

In perfetto stile thrash, il brano è un dei più brevi del platter: i tempi si accorciano e la voce gutturale interpreta abilmente l’atmosfera malata della canzone, sfiorando pericolosamente il metal estremo.

Il tunnel degli orrori continua e “Whet The Knife” scopre un tabù innominabile per la razza umana, il cannibalismo (“…I dress in your skin…I devour your flesh…”). La voce è un urlo bestiale e il gioco chitarristico è come sempre dominato da un istinto omicida, che muta dalla carica animalesca (guitar work massiccio e impenetrabile), al tecnicismo degli assoli acuti e gementi (ottimi contrappunti alla tellurica doppia cassa).

La truculenza di “Whet The Knife” lascia spazio a un profondo senso di desolazione nella liriche di “Delusion”: la chitarra insinua una melodia sibilante e assume un andamento vicino all’heavy più monolitico e aggressivo, lasciandoci scossi e traumatizzati dalle proprie angosce. La voce di Sabina ci perseguita come il demone delle nostre paure più profonde e i backings gutturali ci sbeffeggiano, facendo risuonare la nostra già debole psiche (“…let me please get out of my brain…”).

E’ possibile uscire da questo nero baratro? La risposta è celata dietro l’ultima porta, One Step Ahead Of Death”. Entrati nella sala, un’inquietante arpeggio ci accoglie e si eleva un oscuro e solenne acuto. L’atmosfera non è, dunque, di salvezza ma di incombente fine perché l’unica via d’uscita è la morte: “This Is The End!” ci risponde sprezzante Sabina mentre erutta liriche laceranti che osano persino deformarsi in rutilante growl.

La sessione ritmica è sempre all’inseguimento della chitarra che si divide in sessioni rallentate, strazianti assoli e raffiche continue.

Dimenticato qualcosa? Sì, This Dirt”, dove i Nostri esprimono tutto il loro liberatorio dissenso… ma questo “cameo” spetta a voi scoprirlo.

In “Redefined Mayhem” gli Holy Moses hanno creato un platter vicino al concept album: ogni canzone è perfettamente fruibile come composizione a sé stante, autonoma dalle altre, e, al contempo, tutti i brani sono idealmente uniti da tematiche comuni.

D’altronde, la peculiarità dell’album (considerato il genere) risiede nei testi dell’opera e la sua lettura e comprensione, sebbene non obbligatori, consentono un maggior coinvolgimento e immedesimazione dell’ascoltatore: tolti i temi e le liriche, infatti, ci troviamo di fronte a un ottimo esempio di thrash contaminato da alcune influenze di death.

L’approccio ragionato è, dopotutto, un elemento distintivo nella discografia targata Holy Moses, che, a differenza dei soliti epigoni, propongono una scrittura introspettiva e matura, espressa al meglio dal carisma non comune di Sabina, inarrestabile banshee del metal. La performance della Classen, infatti, non delude mai ed è sempre capace di interpretare al meglio i brani, riuscendo a materializzare le terrorizzanti immagini testuali.

Detto questo, il consiglio appare evidente: se avrete la pazienza di munirvi del booklet, “Redefined Mayhem” potrebbe togliervi più di una soddisfazione.

Un consiglio da tenere in seria considerazione, a maggior ragione se siete già in possesso dello scibile della sacra triade: Destruction Kreator Sodom.

Achtung thrashers!

Eric Nicodemo

Discutine sul forum nella sezione Thrash!

Ultimi album di Holy Moses

Band: Holy Moses
Genere: Thrash 
Anno: 2023
71
Band: Holy Moses
Genere: Thrash 
Anno: 2014
80