Recensione: Redemption at the Puritan’s Hand

Di Emanuele Calderone - 30 Luglio 2011 - 0:00
Redemption at the Puritan’s Hand
Band: Primordial
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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82

Ventiquattro anni di carriera sulle spalle e non sentirli minimamente. Così si potrebbe riassumere, in poche parole, la carriera di una delle più longeve band irlandesi: stiamo naturalmente parlando dei Primordial.
Il gruppo di Dublino, attivo sin dal lontano 1987, giunge, a due anni dal precedente “To the Nameless Dead”, alla pubblicazione del settimo album con “Redemption at the Puritan’s Hand”, un lavoro che, come vedremo, non fa altro che confermare lo stato di grazia del quintetto.

Dediti sin dagli albori ad un particolare miscuglio di primordiale black metal, folk, accenni di musica celtica e stacchi doom, i Nostri proseguono fieri e imperterriti la loro strada, non mostrando, anche questa volta, alcun segno di cedimento.
Esattamente come le ultime due uscite, anche questo “Redemption at the Puritan’s Hand” presenta dei brani (otto in totale) strutturalmente piuttosto semplici e lineari, seppure mai banali e scontati.
Analizzando il modus operandi del combo, ancora una volta le chitarre hanno il compito di tessere le melodie: Ciáran e Micháel sfornano un riff dietro l’altro, riuscendo a conferire il giusto equilibrio tra violenza e melodia alle composizioni. La batteria di Simon e il basso di Pól sono intenti a disegnare ritmiche ora pachidermiche o più serrate, contribuendo a donare un certo movimento alle tracce. E poi c’è lui, quell’Alan Averill Nemtheanga che con la sua voce riesce ad incantare come pochi altri sanno fare. Perfetto nello screaming e nel pulito, il timbro del cantante trentaseienne trasmette emozioni contrastanti, adattandosi con classe ai vari cambi di registro, senza risultare mai forzato, conferendo invece quel carattere unico che da sempre contraddistingue i dublinesi.

Se da un lato, dunque, anche in questo caso le canzoni non presentano architetture troppo articolate e complesse, ciò che invece fa la differenza è la cura certosina dei maestosi arrangiamenti e il pàthos che accompagna ciascun pezzo.
Ogni singola song contenuta nell’album riesce a catturare l’attenzione dell’ascoltatore stampandosi nella mente.
Le atmosfere create dai Primordial cambiano nervosamente e in continuazione, creando in tal modo un’alternanza di emozioni capace addirittura di sconvolgere; ciò nonostante, grazie a un songwriting di qualità eccellente, non si ha mai l’impressione che i pezzi siano caotici o poco coesi.
Ecco dunque che in un attimo si passa dai momenti pacati e malinconici di una semi-ballad come “The Mouth of Judas”, a quelli soffocanti e pieni di sofferenza di “The Puritan’s Hand”, sino ad arrivare all’estremismo oscuro di un piccolo capolavoro black metal quale “Gods Old Snake”, senza mettere da parte le suggestioni celtiche rintracciabili in “Lain with the Wolf”.
Anche laddove i ragazzi decidano di proporre brani, per così dire, più canonici il risultato comunque non cambia: “Bloodied Yet Unbowed”, “No Grave Deep Enough” o ancora “The Black Hundred” si mantengono sempre su standard lontani anni luce dalla media delle uscite odierne. Basterebbe, per esempio, soffermarsi su “Bloodied Yet Unbowed”, per capire quanto i Primordial continuino a fare sul serio: la traccia scarica sull’ascoltatore una vera e propria botta di epicità profondamente venata di quella tipica “tragicità” da sempre marchio del combo.

Ad incorniciare un quadro musicale sì tanto interessante ci pensano i testi, che rappresentano uno dei punti di forza del quintetto. Sempre indirizzati verso tematiche riguardanti il paganesimo e la mitologia celtica, le liriche stavolta raggiungono un livello di poeticità finora mai toccato, richiamando alla mente immagini suggestive ed eleganti. Ciò avviene anche laddove si faccia riferimento ad argomenti più violenti, come nella meravigliosa opener “No Grave Deep Enough”.

Di grande pregio, al solito, anche la copertina, il cui disegno -uno scheletro coperto in parte da una mano, presumibilmente quella di Dio, infuocata- da calore, con le sue tonalità ocra allo sfondo, totalmente bianco.

Pur risultando appena inferiore rispetto a un capolavoro come “To the Nameless Dead”, l’ultimo parto degli irlandesi si attesta su un livello qualitativo pressoché inarrivabile per molte altre band.
Un album, dunque, più che degno di essere ascoltato, che farà sicuramente breccia nei cuori dei fan di vecchia data, ma che non mancherà di raccogliere anche nuovi adepti.
Ancora una volta, grandi.

Emanuele Calderone

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Tracklist:
01- No Grave Deep Enough
02- Lain with the Wolf
03- Bloodied Yet Unbowed
04- Gods Old Snake
05- The Mouth of Judas
06- The Black Hundred
07- The Puritan’s Hand
08- Death of the Gods

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