Recensione: Relayer

Di Abbadon - 19 Febbraio 2004 - 0:00
Relayer
Band: Yes
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 1974
Nazione:
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85

La straordinaria vena compositiva e ispirativa degli Yes è difficile da capire. Difficile comprendere come questi 5 musicisti abbiano saputo riproporre capolavori su capolavori con una costanza quasi disarmante. “Relayer” è semplicemente l’ennesima conferma di una band che come pochissime ha saputo modellare e manipolare il rock progressivo a sua immagine e somiglianza. Siamo nel 1974 e questo è già, in soli 6 anni di carriera (il capostipite “Yes” è del 1969) , l’ottavo disco per il combo di Anderson e Squire. Più precisamente “Relayer” si colloca subito dopo l’eccelso e spesso meno considerato”Tales From Topographic Oceans”, anch’esso datato 1974, e prima di “Yesterdays”. L’album si distingue subito dai precedenti dal punto di vista della line-up. Manca infatti tra i 5 uno dei nomi che più di ogni altro avevano contributo al successo dei “si”, e questo qualcuno è il signor Rick Wakeman. Il nostro infatti si allontanò dalla band dopo aver ricevuto forse uno dei massimi onori che un musicista possa avere, ovvero quello di suonare con un’orchestra, e passò il 1974 (prima di riapprodare all’ovile) a registrare l’album “Journey to the centre of the Earth” assieme all’orchestra sinfonica di Londra. Ma torniamo agli Yes orfani di Wakeman. A non far rimpiangere questo vero genio delle tastiere di pensa il nuovo acquisto Patrick Moraz, che con Alan White (al suo secondo album studio dopo spezzoni del live “Yessongs” e il già citato “Tales of..”) e i veterani Anderson, Howe e Squire, formano la nuova front line. E non essendo la classe acqua, pur senza nomi (al tempo) celebri, i nuovi arrivati contribuiscono alla realizzazione di un vero e proprio figurone, confezionando un prodotto che sarà a mio modesto parere ricordato come uno dei migliori platter targato Yes. Stilisticamente, a livello di costruzione, “Relayer” è sulla falsariga di “Close to the Edge”, quindi abbiamo una opener maestosa, che come “Close..” (la song) è un (lungo) manifesto del rock progressivo prima maniera, opener che si accoppia ad un pezzo molto brioso e ad uno molto più dolce. Non parlo di tecnica, basti dire che siamo agli apici, e passiamo subito al piatto forte, ovvero all’ascolto dell’album. Relayer si apre dunque con i 22 minuti abbondanti di “Gates of Delirium”, canzone ispirata, a quanto dice la band, al “Guerra e Pace”di Tolstoy. Devo dire che forse mai titolo fu più azzeccato per una song. Ci troviamo infatti dinanzi ad un vero e proprio delirio di suoni, cambi di tempo, melodie, virtuosismi e follie che potrebbero davvero far perdere d’animo i meno coraggiosi. Subito l’attacco è difficilissimo da comprendere e per qualcuno potrebbe sembrare un accozzaglia di note senza senso, poi però il ritmo si fa più “uniforme” (se così si può dire) e con buoni tratti di cantato, con la voce alterata (nel senso modificata per dare un alone supplementare di pazzia) di Anderson che dà il suo bel contributo, così di impatto sono il keyboardist (che forse non sarà all’altezza del predecessore, ma comunque non lo fa rimpiangere) e tutti gli altri. Traccia in definitiva incredibile e obbligatoria per i progster, da ascoltare con molta, molta calma per tutti gli altri, pena il non capirci nulla. E nel segno dei virtuosismi e della pura pazzia si colloca pure la seguente “Soundchaser”, uno dei pezzi più vivaci del gruppo. Si parte più o meno sulla stessa solfa di Gates, ovvero all’insegna della bizzarria, strumenti sparati a tutta velocità che creano eccellenti trame (e che se presi una per volta dimostrano quanto i cinque musicisti se la suonino, qui elogerei Howe e Squire su tutti), trame che si intrecciano creando situazioni intricate e anche imbarazzanti, sicuramente spiazzanti per un neofita. Dopo qualche minuto di guazzabuglio (che brutto termine) gli strumenti si fanno da parte per lasciar campo al grandioso assolo (accompagnato a tratti da una sacrale tastiera) di Steve Howe, che dimostra di essere un clamoroso luminare del suo strumento. L’assolo è davvero piazzato al punto giusto, perché segna un deciso cambio di tempo per una traccia che altrimenti avrebbe sfiancato l’ascoltatore. E’ vero che poi Soundchaser si chiude con la stezza pazzia che ne aveva caratterizzato l’apertura, ma quell’assolo è davvero un toccasana, un colpo di genio. E, come già annunciato, arriviamo al terzo, ultimo e più dolce e pacifico episodio di questo finora incredibile disco. Sto parlando della placida “To be Over”, che funge da piacevole sipario di riposo dopo due track in tutta sincerità, per quanto belle, spossanti a livello mentale. I giochi di chitarra e tastiera che si snodano nella prima parte sono molto gradevoli e fanno da apertura a un pezzo bellissimo, dove Jon Anderson dà il massimo che può dare alla sua voce in termini sentimento e dolcezza, una dolcezza che infonde sicurezza e calma, nonostante i virtuosismi non manchino di certo neppure qui. Un modo forse telefonato, ma che non può fare a meno di stupire, per chiudere l’ennesimo disco strabiliante di una carriera altrettanto strabiliante. C’è diversa gente che conosco che colloca Relayer come miglior prodotto degli Yes, io non sono d’accordo in quanto difficilmente supera “Close to the Edge” e “Fragile”, certo è che questo album sta con la pipa nelle prime 5 posizioni di una mia classifica personale. Concludo con l’ennesima frase scontata e già detta decine di volte : must che non può mancare in alcuna discografia prog che si rispetti.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

Tracklist :
1) Gates of Delirium
2) Soundchaser
3) To be Over

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