Recensione: Reminiscence

Di Alessio Gregori - 2 Luglio 2016 - 10:00
Reminiscence
Etichetta:
Genere: Avantgarde 
Anno: 2015
Nazione:
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75

Difficile quando si ascoltano album come Reminiscence rimanere oggettivi e fare una buona recensione: si rischia di farsi influenzare da questioni legate al gusto personale oppure a una mancanza d’esperienza e padronanza della materia. Questo lavoro dei modenesi Aseptic White Age è, infatti, un disco strumentale (tranne per una brevissima eccezione) oltre che molto sperimentale e totalmente fuori da tutti i canoni e gli schemi tradizionali del metal, tanto da poter esser inscritto nel filone avantgarde, inteso come forma d’arte e di pensiero futuristico e metafisico. Sarebbe riduttivo pensare che comporre dei pezzi strumentali sia come suonare delle canzoni senza la presenza del cantante, perché la musica è comunicazione ed è in grado di trasmettere sempre delle emozioni. Farlo senza la presenza della parte verbale, intessuta di parole, intonazioni ed espressioni, è già di per sé un impegno considerevole, per realizzare il quale bisogna essere dotati di una grande padronanza tecnica oltre che di idee e di intelligenza.

Reminiscence si apre con “Moltitude”, forse il pezzo più immediato e fruibile, molto ritmato e scandito, oltre che veloce e accattivante. L’uso del sax è prezioso ed è a questo strumento che viene dato l’arduo compito di riempire i vuoti lasciati dall’assenza del cantante. La missione è compiuta e la sensazione di una continua ricerca melodica ed espressiva permette alla musica di scorrere piacevole, senza annoiare. La successiva “Monolith” ci porta, invece, in un’atmosfera più cupa e angosciante; il ritmo nella prima parte è lento, di matrice doom, il refrain è ripetitivo, quasi stridente e inquietante. Successivamente il pezzo prende più velocità e si mostra in tutta la sua complessità di ritmiche dispari e sincopate, certamente il lavoro che ci sta dietro è notevole. “Gravity”, si apre con un’atmosfera jazz, rilassante e un po’ noir per poi sfociare improvvisamente in un’angosciante “caduta negli abissi” con un accenno di vocals sintetici di stampo death. Questa continua alternanza di chiaroscuri sarà la caratteristica che troveremo in tutto l’album, specialmente di qui in avanti.  Pace e agitazione, serenità e angoscia, accelerazioni e brusche frenate: Reminiscence è una ricerca continua degli estremi e delle sfumature più sottili. “Antigravity”, pur riprendendo il tema del pezzo precedente ne è la perfetta antitesi e si conclude con dei suoni sospesi ed eterei che ci introducono a “Disease” (la malattia), che ci porta in una confusione mentale fatta di esasperazione delle ritmiche e suoni estranianti. Si comincia quindi a intravedere una logica sottesa che rende l’ascolto di quest’album una sorta di viaggio interiore alla ricerca di sensazioni ancestrali che precedono la vita e la nascita. Il brano successivo non poteva che intitolarsi “Antidote” (l’antidoto), un insieme di suoni che sembrano provenire da mondi lontani e dimenticati.
Il lavoro si conclude con “Synapses” e “Hypophysis”. La prima si può ancora definire musica tout court, la seconda invece sembra addirittura uno di quei brani subliminali che ripetono all’infinito una certa frequenza, chissà magari proprio per andare a stimolare l’ipofisi dell’ascoltatore….

In conclusione siamo davanti ad un lavoro complesso, cerebrale e molto sofisticato. Nonostante la difficoltà intrinseca e interpretativa, Reminiscence non potrà che suscitare una certa curiosità e un fascino sconosciuto. A questo proposito potremmo paragonare quest’opera a un quadro di un pittore futurista (avete presente?), lasciando giustamente a ciascuno di voi la possibilità di interpretarlo in base alle emozioni che esso suscita, senza esprimere un giudizio in assoluto. Per questa ragione ho deciso di mettere un voto intermedio, non potendomi sbilanciare né in positivo né in negativo. Che sia questa la musica del futuro? A voi “l’ardua sentenza!”

 

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