Recensione: Resplendent Grotesque

Di Riccardo Angelini - 6 Ottobre 2009 - 0:00
Resplendent Grotesque
Band: Code
Etichetta:
Genere:
Anno: 2009
Nazione:
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75

Diciamolo senza troppe remore: il black metal è passato di moda. Dopo il boom del Trve Evil underground a cavallo fra i due millenni, qualcuno ha cominciato a rendersi conto che i grandi classici appartengono a un tempo passato e finito – ostinarsi a emularne le gesta significa apparire alla meglio anacronistici (che non sempre è un male), alla peggio ridicoli (che non è mai un bene). Questo i Code lo avevano capito da almeno quattro anni, quando con ‘Noveau Gloaming’ avevano provato ad avanzare una proposta alternativa. Ora tocca a ‘Resplendent Grotesque’ dare continuità e credibilità a quella singolare interpretazione del post-black.

Il passaporto dice Inghilterra ma c’è molta Scandinavia nel cuore dei Code. A tormentare le pelli è stato convocato Adrian Erlandsson – un curriculum lungo come un romanzo russo – e non c’è bisogno di aggiungere altro. Al basso c’è ancora un certo Viper, alias Vicotnik, alias Ysaf Parez. Chi diavolo è? È un signore che nel 1995 insieme a tali Carl Michael ‘Agressor’ Eide e Einar ‘Esso’ Sjursø ebbe l’idea di dare alle stampe un album chiamato ‘Written In Waters’ e firmato Ved Buens Ende. Si trattava di uno dei primi, seri tentativi di andare oltre i canoni del black metal tradizionale, buttando nella mischia psichedelia, jazz, art rock e altre eresie. All’epoca se ne accorsero forse in due, oggi al documento è riconosciuta un’importanza storica straordinaria – soprattutto se si pensa al momento particolare in cui vide la luce.

Ma torniamo ai Code. Il combo quasi-britannico deve molto a quell’album, più ancora di quanto non debba ai DHG – in cui pure ha militato il frontman Kvost e tutt’ora milita Viper – o ai Borknagar, altro punto fermo per la genesi di ‘Resplendent Grotesque’. Il materiale grezzo è sempre quello dalla tradizione norvegese, limato e cesellato da un artigiano dai gusti fini. I riff si fanno così più drammatici che violenti, più affilati che martellanti. I momenti migliori sono quelli in cui la band si prende sul serio, come ‘Jesus Fever’ o ‘A Sutra Of Wounds’, ma non mancano concessioni a un black n’ roll alquanto ignorante, con una ‘Possession Is The Medicine’ che s’accosta agli ultimi Satyricon (in una chiave, va detto, infinitamente più evoluta). Prezioso il lavoro ritmico di Erlandsson, sia quando lavora di precisione sia quando si concede alla velocità, sia pur con misura – doppia cassa sì, blast-beat no.
Carattere principe del Code-sound è però l’intreccio di voci. Uno screaming rauco e nemmeno troppo potente, talvolta addirittura ridotto a urlaccio schietto e sincero, cede spesso il passo al pulito o a litanie corali di vortexiana memoria. I suoni sono freddi, morbosi, a tratti asettici, con una spiccata eco decadente (‘The Rattle Of Black Teeth’ potevano averla scritta gli Opeth), come immersi in una bruma sottile da ospedale psichiatrico. Il rischio di claustrofobia è scongiurato dalla durata contenuta dei brani, perlopiù fra i tre e i cinque minuti: dimostrazione che non serve parlare a lungo quando si sa esattamente cosa dire.

La durata complessiva sotto i trentacinque primi potrebbe scontentare quanti ne vorrebbero ancora, ma se questo è ciò che i Code avevano da esprimere va bene così. Quantomai salubre suona il loro contributo a una scena in cui molto è già cambiato e pure alla costante ricerca di nuovi sbocchi evolutivi. Per quanto conservatore e autocratico, il black metal non ha infatti potuto impedire alle agili menti dei suoi interpreti di aprirsi a nuovi orizzonti. E, come in questo caso, di fare anche un buon lavoro.

Riccardo Angelini

Tracklist:
1. Smother The Crones
2. In The Privacy Of Your Own Bones
3. The Rattle Of Black Teeth
4. Possession Is The Medicine
5. Jesus Fever
6. I Hold Your Light
7. A Sutra Of Wounds
8. The Ascendent Grotesque

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