Recensione: Resurrection

Di Alessio Gregori - 19 Ottobre 2016 - 10:00
Resurrection
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2016
Nazione:
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55

Su Geoff Tate e i suoi Operation Mindcrime sono stati spesi fiumi di parole, tanto che è ormai diventato del tutto superfluo ogni ulteriore commento a riguardo. In questa recensione cercheremo, quindi, di concentrarci solo sulla mera proposta musicale e di trattare la seconda parte di questa trilogia come faremmo con qualunque altra band. Facciamo subito una premessa: questo nuovo capitolo intitolato Resurrection sembra aver fatto qualche piccolo passo in avanti rispetto al suo predecessore The Key (non che fosse un’impresa difficile….), quantomeno il genere proposto ci risulta più identificabile. Si tratta infatti di un prog rock, a tratti sperimentale, con vaghi e lontani richiami ai Queensryche, specialmente nell’uso dei cori e di certe soluzioni melodiche.

La voce di Tate, lo sappiamo benissimo, non tornerà più ad essere quella dei tempi migliori, smettiamola quindi di fare inutili paragoni con il passato.  Dobbiamo però ammettere che la raggiunta consapevolezza dei propri limiti, unita finalmente ad una certa dose di umiltà, lo mette al riparo dal continuare a fare brutte figure, specialmente per quanto abbiamo potuto constatare leggendo i vari commenti alle sue ultime uscite live. I pezzi “storici” vengono, infatti, riproposti solo con arrangiamenti e soluzioni adeguate alle sue effettive capacità, senza strafare e senza andare a cercare improponibili e irraggiungibili tonalità alte. Siamo in un certo senso di fronte ad un’ennesima nuova era, nella quale il nostro sta cercando, giustamente, di rimboccarsi le maniche nel disperato tentativo di riconquistarsi un po’ di credibilità. 

Noi possiamo dargliela fino a un certo punto, nel senso che in un mercato discografico dove la qualità media delle uscite è diventata ormai davvero altissima, non sono concesse eccezioni: per farsi strada infatti non è più sufficiente avere un passato glorioso, bisogna meritarsi il rispetto dei propri sostenitori uscita dopo uscita. Detto questo, dopo vari ascolti, ci troviamo purtroppo ancora a sottolineare quei soliti difetti che Tate sembra proprio non riuscire a scollarsi di dosso: monotonia, mancanza di idee e scarsa lucidità. Ci sono pezzi che partono bene e che prendono una direzione totalmente diversa, come ad esempio “A Smear Campaign”, unico brano che ci propone un riff heavy di qualità ma che si ingolfa troppo presto nelle solite prevedibili soluzioni stilistiche. Stesso discorso per “Healing my Wounds”, brano di buone aspettative e di una certa intensità ma che delude inesorabilmente appena entra in scena il solito uso del sassofono, soluzione alla quale siamo fin troppo abituati e che non fa altro che infastidire.

È, invece, degna di nota “Left or Dead“, il primo vero brano dell’album che arriva dopo ben quattro (e dico quattro!) intro di durata variabile tra i 30 secondi e i 2 minuti e mezzo e che, pur procedendo con un ritmo a dir poco soporifero, ci presenta un refrain almeno orecchiabile. Ricordiamo inoltre l’elegante e intensa “Invincible” oltre che la piacevole e intricata “Which Side You Are On”, che ci riporta la mente a “The Other Side Of My Mind”, unica perla in quel disastro chiamato Q2K.

Ma è soprattutto con “Taking On The World” che raggiungiamo finalmente la sospirata sufficienza. Il brano in questione, con tanto di ospiti speciali, tra i quali Ripper Owens e Blaze Bayley , ci riporta alle atmosfere dell’epoca De Garmo, grazie ad una melodia di pregevole fattura e ad un ritmo sostenuto. Se tutte le composizioni fossero state di questo tenore saremmo qui a fare delle ben altre considerazioni. Per quanto riguarda tutto il resto non possiamo che sottolineare l’enorme difficoltà ad assimilare le complesse tramature e la poca immediatezza nella quale Tate e i suoi sembrano continuare a ricadere, forse convinti di trasmettere all’ascoltatore sensazioni ricercate ma che in realtà arrivano a noi come delle intense dosi di Valium, con il risultato di costringerci a skippare nella speranza di trovare qualcosa di più diretto e coinvolgente.

Tirando le somme, dobbiamo ammettere che pur non trovandoci davanti ad uno scempio totale non siamo nemmeno di fronte ad un lavoro capace di risollevare completamente le sorti del gruppo che continuerà pertanto ad attirare verso di sé solo l’interesse dei fan più fedeli di Geoff Tate, naturalmente, se ce ne fossero ancora.

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