Recensione: Return Of The Reaper

Di Eric Nicodemo - 10 Luglio 2014 - 0:34
Return Of The Reaper
Band: Grave Digger
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
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74

 

Ogni nuova uscita di una cult-band è da sempre oggetto di particolari attenzioni e l’ultima fatica dei Grave Digger non fa eccezione.
Nel caso dei Nostri, è impensabile aspettarsi un cambiamento radicale nel sound ma la voglia di raccogliersi attorno a un loro disco è la stessa di chi si ritrova con amici di vecchia data, per una birra o altro, pur consapevoli che il tempo non ha scalfito vizi e virtù dei vostri compagni di bevute. E “Return Of The Reaper” non è altro che questo: l’occasione di mantenere alta la fiamma del metal teutonico puro e duro, senza sconvolgimenti di sorta, con la volontà di portare avanti questo credo al di là delle mode, infischiandosene di parole come “contaminazione” e “rinnovamento”.

Insomma, è superfluo sconvolgere le regole di un gioco i cui partecipanti vogliono portarlo avanti così com’è. Convinzione (o caparbietà) che non manca in brani quali “Hell Funeral”, che si allinea perfettamente con la proposta heavy/power attuale made in Germany, macinando in un’unica soluzione ritmiche rocciose e concitate con l’imprinting chitarristico debitore di un certo thrash (all’acqua di rose, ovviamente).
Un pezzo potente ma legato a schemi di maniera, come rivela un ritornello privo di scossoni, indeciso tra melodia e immediatezza. Un binomio che persiste per l’intera durata della canzone, senza riuscire ad entusiasmare né gli amanti dei cori epici ed altisonanti, né tantomeno coloro che adorano l’eversività del lato più duro del metal. In aggiunta, dopo un breve midtempo, una serie di assoli confusi e convulsi. Trascurabile la title track, rifacimento della “Marcia Funebre” di Chopin

Ironia della sorte, “Hell Funeral” è spia del mood generale del lavoro: una ricerca di mediazione e riproposizione di sonorità potenti, songs dall’appeal classico e scorci più epici e teatrali.

In questo calderone, sospeso tra vecchio e nuovo, “War God” rappresenta il lato più aggressivo dei Nostri, tradendo alcuni cliché, come rivela il martellare dell’abusato pattern.
Un refrain urlato, senza troppi fronzoli, e un bruciante guitar solo (secondo dettami rigorosamente power), completano il quadro di un’esperienza in linea con il materiale dei Grave Digger più monolitici.
Menzione speciale va al terremotante drumming, capace di regalarci momenti tellurici semplicemente degni da cataclisma nelle sue impietose raffiche (messe in luce da una produzione nitida, senza sbavature di sorta).

Il fattore nostalgia è perfettamente interpretato da canzoni quali “Tattooed Rider”, che ci rimette in sella ad una chitarra classic oriented. Una buona cavalcata nei meandri dell’heavy più tradizionale, accompagnati da un refrain che riesce a piacere per hooklines ed energia, senza sconvolgere le certezze dei veterani.   

In pieno clima di revival, i Grave cambiano rotta e ci attanagliano in una morsa di ferro, proponendo  nuovamente una versione massiccia del loro metal.  
E così nascono i riff tarchiati di “Resurrection Day”, dove il combo non cambia le carte in tavola ed aumenta il volume, esplodendo in decibel compatti e fragorosi. Déjà vu solo sfiorato.

La furia continua in “Road Rage Killer”, alimentata da deraglianti riff inferti da Axel Ritt. Nessuna pausa riflessiva da parte dell’onnipresente drumming a raffica mentre il guitar solo si divincola in una progressione dissonante. Insomma, ancora nulla di epocale, giusto una veloce, grezza dose di adrenalina giù in endovena.

L’ascolto di “Resurrection Day” e “Road Rage Killer” sembrerebbe portare i Grave lontani dalla possibilità di qualunque mediazione “riff potente-coro epico” ma veniamo smentiti da “Season Of The Witch”, un lento heavy che pressa l’ascoltatore con riff rocciosi e voce sporca.
La pesante cappa cade e i Nostri si elevano in un teatrale coro, gravido del giusto pathos. Il ritornello è anche la chiave di volta del brano, pur con qualche breve divagazione, che si traduce in un inframezzo d’atmosfera, solcato da backings onirici su un sottofondo acustico, triste e desolante. Un momento di fiamma per i Grave Digger, che non vi dispiacerà senza rubarvi l’anima.    
“Grave Desecrator” è un ripasso della lezione a volumi monolitici, grazie alla genuinità di liriche di facile comprensione e digestione. Un concetto semplice, quanto la possibilità di scuotere la testa mentre il groove del ritornello rimbomberà dentro di noi, penetrando fino nel metallico midollo.

Tuttavia, il peso di una folta discografia grava su questo platter e “Return Of The Reaper” non riesce a sottrarsi allo spettro del riciclo, che perseguita “Satan’s Host”.
Se, infatti, avevamo la sensazione che mancassero sostanziali novità, l’attacco di “Satan’s Host” sembra confermare i nostri dubbi: il basso nervoso a là NWOBHM e le veloci sferzate di Ritt stabiliscono un rapporto diretto e sincero con il pubblico più “anziano”, conscio che i Nostri mai abiureranno la loro incrollabile fede. D’altronde, quando sentirete il riff portante vi rivolgerete a Lemmy e al suo “Ace Of Spades” per ulteriori delucidazioni…

Sarete ancora tentati di chiedere chiarimenti quando gli zombie di “Dia De Los Muertos” vorranno avventarsi sulla vostra carne: il mood plastico e ossessivo ha chiare assonanze con il passato, una sensazione non sgradevole ma persistente come fantasmi che si aggirano tra le rovine. Zombie e revival a parte, il main guitar si mette in luce per l’enfasi di un vibrato che porta la salvezza a queste anime dannate.

Tra streghe, demoni e morti viventi, le liriche di “Death Smiles At All Of Us” aggiungono altri luoghi comuni alla cabala del platter.
Condito da sacrifici e porte infernali, “Death Smiles At All Of Us” lascia ogni approccio ragionato per gettarci in pasto al virile chorus, troppo grezzo e sporco per soffermarsi in lirismi power ma abbastanza energico e catchy da richiamare i vecchi filibustieri “Running Wild”. Da segnalare il breve incipit, dove l’esile suono del clavicembalo è solo un pretesto per addurre una variazione d’atmosfera, prima di riversare la solita colata lavica.

Il pianoforte di “Nothing To Believe” tenta di ingentilire l’atmosfera, in contrasto con il ruvido tocco di Chris Boltendhal.
Il messaggio è, come da copione, lasciato al coro, che vibra di passione epica, nel suo altisonante, teatrale nichilismo, ovvia metafora di una vita disillusa. Un episodio riuscito, che riesuma il lato più drammatico e poetico del Becchino, di certo una boccata d’aria dopo la kermesse metallica appena vissuta.

Tirando le somme, “Return Of The Reaper” si rivela un album più pesante e più compatto rispetto al precedente “Clash Of The Gods”, limitando i virtuosismi power e allontanandosi dall’epicità della triade “Tunes Of War”, “Knights Of The Cross” ed “Excalibur”.
Un gradito ritorno verso sonorità tipiche del metal anni ottanta/novanta in stile “The Reaper”, ripreso dallo stesso titolo dell’album, tradendo la volontà di bissare il glorioso passato.
Riscoperta avvenuta tra groove massicci e refrains orecchiabili, che renderanno questa esperienza scorrevole a partire dall’arrembante “Tattooed Rider”.
Infatti, l’inizio in salita, con “Hell Funeral” e la coriacea “War God”, delinea un album altalenante, che piacerà a tratti, senza raggiungere l’ispirazione e l’abrasività di “The Reaper” o di “Heart Of Darkness”.

Se cercavate solo una conferma e desideravate un platter ortodosso, questo disco è la vostra nuova guida sulla via del metallo, tra cimiteri e castelli sulfurei. Altrimenti, fate una pausa vacanziera, provando altri generi che prima d’ora avevate solo considerato.

 

Eric Nicodemo

 

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