Recensione: Return to the Point of Departure

Di Damiano Fiamin - 3 Marzo 2014 - 20:00
Return to the Point of Departure
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Anno: 2013
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73

La prima cosa che colpisce prendendo in mano l’EP di esordio di questo terzetto texano è senza dubbio il nome, un bizzarro conglomerato lessicale a metà strada tra i Dimmu Borgir e l’auto-compilazione del telefonino. Che siano parole prese a caso o il frutto di una ponderosa riflessione, il risultato non cambia: è un monicker che attira l’attenzione, anche grazie a quella colorata e patriottica granata che sostituisce la tanto banale lettera “o”.
In aperta opposizione con la prepotente parte testuale, l’immagine di copertina rappresenta immani spazi siderali, solcati da venti cosmici che trasportano promesse di musica ad ampio respiro. Impulsi contrastanti corrono per il cervello: cosa conterrà veramente questo disco? Allegato all’album non c’è uno straccio di presentazione, né un libretto da cui trarre vaticini.  Certo, i tre non vogliono che si parta con alcun preconcetto. Accontentiamoli, dunque, e vediamo cosa ci riserva l’ascolto di questo “Return to the Point of Departure”.

La proposta musicale offerta dal trio texano è abbastanza elaborata. Durante la mezzoretta abbondante di brani contenuti in questo debutto, troviamo una miscela di progressive metal strumentale, la cui compattezza sonora viene alleggerita dalla band tramite l’inserimento di effetti sonori e campionamenti vocali di vario genere. L’abbondanza di infarciture e tecnicismi pone il combo a metà strada tra i Cynic e Satriani. Ovviamente, data la totale assenza di parti cantate, i tre artisti hanno avuto modo di concentrarsi appieno sulla composizione di riff e armonie che valorizzassero i propri strumenti.
Pur se non perfetto, il risultato complessivo è buono. Basso e chitarra si intrecciano in maniera convincente, in una corsa a velocità alternata in cui avvicendano momenti più tirati ad altri più rarefatti. La batteria, stranamente, non sembra godere dello spazio a cui potrebbe aspirare in un gruppo dedito a questo genere di musica; pur non limitandosi certo a battere il tempo, Pritchett non riesce a trovare il modo di scatenarsi come i suoi due colleghi. Peccato, una sua maggiore verve avrebbe sicuramente consentito al gruppo di ottenere una marcia in più.

L’aspetto che maggiormente lascia perplessi durante l’ascolto è, paradossalmente, proprio il modo in cui questo EP è stato concepito. La musica creata dal combo statunitense è ben suonata da artisti tecnicamente capaci; per essere un disco di prog strumentale, però, le soluzioni trovate sono fin troppo monolitiche. Senza mai diventare banali, i nostri danno vita a una composizione uniforme, corposa, in cui è difficile separare un pezzo dall’altro. Questo non è necessariamente un male, soprattutto in virtù del fatto che le cinque tracce si lasciano ascoltare senza problemi. Una maggiore varietà, però, è decisamente auspicabile per il futuro, visto che, a queste condizioni, il rischio di creare un prodotto indigeribile è molto alto.

I Mahogany Hand Grenade sono sicuramente partiti con il piede giusto. Forse, prima di lanciarsi nella pubblicazione di quest’opera prima, avrebbero potuto soppesare con maggiore attenzione il bilanciamento di quanto registrato. Non possiamo, però, non tener conto che questo debutto è un’autoproduzione di livello più che discreto, sia per quanto riguarda il contenuto, sia per quanto riguarda la forma. Dietro un monicker impossibile da tenere a mente si nascondono tre belle speranze per il futuro. Sicuramente da tenere d’occhio.

Damiano “kewlar” Fiamin

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