Recensione: Revolution of Two

Di elfianmetal - 15 Agosto 2019 - 13:41
Revolution of Two
Band: R.O.T.
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2018
Nazione:
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75

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Fa sempre piacere scoprire qualcosa di fresco e trovarsi a confronto con una realtà così sincera e genuina come quella dei R.O.T., questo è il moniker della band italiana di Cassino nata da poco meno di un anno e che fa la sua comparsa sulla scena musicale con un full-length. Senza preavviso, singoli, EP, ecc. Una mossa discutibile in fatto di marketing musicale poichè ci si ritrova in difficoltà a farsi sentire con un lotto di tanto materiale sparato tutto insieme su un pubblico che di te conosce nulla. Il loro debut album si chiama “Revolution of Two” ed è un lavoro autoprodotto in tutto e per tutto, dalle registrazioni al mastering, anche questa mossa alquanto rischiosa ma che, inaspettatamente, non va a rovinare il risultato finale. La band è composta da Louis Littlebrain ed Eddy Scissorshand. Sono questi i nomi con cui si presentano i due musicisti che suonano rispettivamente chitarre e tastiere, voci e basso, mentre la batteria è stata composta con il computer.

Questi due ragazzacci sono riusciti a mettere insieme un disco davvero niente male sotto quasi tutti gli aspetti.

A partire dall’ispirazione che non manca affatto e che sembra abbracciare una grande quantità di sottogeneri contemporanei e non. Il gruppo infatti si presenta come death metal melodico, ma non aspettatevi la solita minestra svedese riscaldata à la In Flames. In “Revolution of Two” troviamo composizioni tecniche a mò di Death, tempi dispari e lunghi spezzoni strumentali che oscillano tra gli Iron Maiden e il prog. Groove e breakdown presi in prestito dai più recenti cambiamenti *core. Insomma davvero tanto tanto materiale di cui discutere.

Il disco si apre con ‘After All, che fa da apripista per le chitarre power di Diamond Souls, pezzo molto diretto e quasi interamente strumentale che sembra voler mettere in chiaro le qualità tecniche e compositive del duo. Scambi di assoli e cavalcate heavy che sfociano in un riffone tutto groove che ricordano gli Avatar di “Black Waltz”; riffone che introduce la voce del cantante Eddy, con un bel growl sporco ma non troppo da cui trapela un filo di voce che rende il tutto davvero interessante e, dopo qualche scream qua e là, ritorna una carrellata di assoli che ci accompagnano alla fine del brano. Hyper Tyhmesia si apre con una melodia che mescola chitarre e pianoforte, una strofa degna dei Death di “Individual Tought Patterns” e dei breakdown accompagnati da archi e cori che danno al pezzo una bella carica. Con ‘The 4th Reactor cambiamo nuovamente strada per tuffarci in un groove metal moderno con riff stoppati e un ritornello melodico, in cui Eddy introduce il suo cantato in pulito che si amalgama molto bene con le note dissonanti in sottofondo trasmettedo la giusta carica emotiva.

Con ‘Rebirth’ si cambiano di nuovo le carte in tavola, questo è uno dei pezzi più strani e divertenti dell’album poichè non saprei bene come definirlo dato che viene introdotto da una serie di accordi piuttosto allegri e spensierati, una strofa con chitarre pulite sovrastate da uno scream quasi inquietante e un ritornello diretto e azzeccato. E dopo questa struttura abbastanza semplice veniamo introdotti al corpo della canzone che si trova nel mezzo, un rullante quasi da marcia ci porta nuovamente in una gara tra chitarre che si mescolano e si rincorrono per gran parte del brano, delle melodie e delle ritmiche che oscillano tra l’heavy metal inglese e il power tedesco dei primi anni, poi come se nulla fosse il pezzo ritorna al tema iniziale e si chiude con rapidità (forse troppa).

‘Angel’s Cry è un melodic death classico, con dei ritornelli acustici che si alternano a riff tecnici e melodie da una fortissima carica emotiva che ci portano alla conclusione del brano con un fade-out azzeccatissimo. Ethereal Dimension è un altra novità, difatti è un brano interamente acustico… ma per niente dolce e spensierato. Le chitarre tessono melodie a cavallo tra l’atmosfera da falò medioevale e l’oscurità degli arpeggi in stile Opeth. Il cantato in scream dona al pezzo una sfumatura ancora più oscura che rende questo brano uno dei più interessanti del lotto. Ma la tranquillità viene immediatamente troncata da Apatite, che si apre con un riff diretto e potente, questo è probabilmente il pezzo più aggressivo dell’album, cantato interamente in growl e scream, chitarre che macinano riff e partiture degne dei primi Obscura, un intermezzo con degli archi epici e delle chitarre armonizzate che rendono il tutto davvero originale.

Ok, siamo quasi siamo giunti al termine di questo viaggio, che Louis ed Eddy hanno voluto presentarcelo così: già dalle prime parole di Diamond Souls, in cui il cantate ci augura esplicitamente “Good journey!”. L’ultimo pezzo è Aut Aut, un brano di quasi nove minuti che trascorrono veramente fluidi senza mai stancare o cadere nel ripetitivo. Un intro piuttosto semplice lascia subito il posto al primo breakdown accompagnato da chitarre in quinte (e qui strizzano di nuovo l’occhio ai Death), Le strofe in 7/4 lasciano il posto ad un ritornello dispari con melodie quasi sognanti che distaccano l’ascoltatore dall’aggressività dei precedenti riff, il cantato pulito, qui, è il migliore di tutti i pezzi dell’album, melodico, semplice e mai melenso. Si ritorna poi a degli stacchi possenti e groove che nella seconda parte del brano si trasformeranno addirittura in blast-beats quasi black. Un intermezzo di pianoforte ci fa riprendere fiato per preparaci all’ultima parte della traccia in cui il ritornello finale lascerà parlare le chitarre di Louis che si intrecciano in melodie dolci e potenti allo stesso tempo. Nel finale Eddy riprende il microfono in mano per salutarci e accompagnarci alla fine del viaggio. Che si conclude con delle chitarre acustiche medievaleggianti che sfumano lentamente.

Che dire. Sono rimasto sorpreso da questo debut-album, sopratutto dalla creatività e la voglia di fare di questi ragazzi, tangibile nella loro musica ma anche in tutto ciò che la circonda, dall’artwork, le grafiche, il mixing, il mastering. Tutto realizzato da loro. Sicuramente il lavoro non è perfetto, ci sono delle imperfezioni tecniche, ma sono piccolezze se confrontate alla mole di musica  che ci hanno sbattuto in faccia arrivando dal nulla più totale, ma da quello che vedo ai R.O.T. non piace perdere tempo, e non perdetelo neanche voi, perchè “Revolution of Two” è qualcosa che aspettavo da un pò: un’opera grezza, imperfetta ma fresca, sincera e dinamica.

Questi ragazzi hanno ancora tanta strada da fare, devono ancora trovare il loro sound. Ma per il momento si divertono a incastrare in modo intelligente ciò che gli piace. E lo fanno bene!

“elfianmetal”

 

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