Recensione: Revolution Saints

Di Eric Nicodemo - 20 Febbraio 2015 - 8:00
Revolution Saints
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2015
Nazione:
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87

Implicazioni ideologiche ed innovazione: questo è tutto quello che non troverete in “Revolution Saints”. E sono aspetti che non abbiamo interesse di trovare in questo tipo di full-lenght, che è nato per darci una cosa a cui mai saremo assuefatti: bollente, ispirato melodic rock’n’roll. Ispirato perché il numero di rock band è ormai incalcolabile ed è sempre più difficile proporre qualcosa di veramente elettrizzante (a maggior ragione per quelle celebrità che hanno visto tempi migliori).

Dunque, se non si può a fare qualcosa di nuovo, si può sempre fare una cosa: creare un side-project e far partecipare vecchi amici, colleghi e contendenti, per potenziare e rinvigorire idee e stili collaudati.

L’idea, partita da Serafino Perugino, fondatore della Frontiers Records, è stata accolta dall’ormai veterano Deen Castronovo, assieme a Jack Blades ed a Doug Aldrich, nomi che non hanno bisogno di presentazione per i rockers di lungo corso. All’appello partecipa uno stuolo di special guests di prim’ordine: dal contributo irrinunciabile di Alessandro Del Vecchio, all’AOR-God Neal Schon, passando attraverso l’inatteso Arnel Pineda.

Dopo questa breve presentazione, il dinamico trio parte subito come un razzo incandescente sui binari di “Back On My Trail”. Le liriche fremono e traboccano di entusiasmo, la chitarra vortica folle, lanciando assoli posseduti dalla verve di Doug. Opener da capogiro, che riporta l’attenzione sulle atmosfere oldies e che mostra un guitar man ancora in grado di ferire dritto nel cuore, con penna e chitarra.

Back On My Trail” fa capire bene l’ossatura dell’opera: rock esuberante che sa mediare la veemenza hard’n’roll con la melodia mai invadente dei tasti. Ciò consente di creare subito un rapporto affettivo con l’ascoltatore e “Turn Back Time” restituisce la grinta dei Night Ranger, senza lasciare possibilità di fuga ai nostri fragili sensi. Aldrich fa fumare la sei corde e incendia il palcoscenico con maestria incredibile. La differenza con un album medio di hard rock è palese: non solo uncini melodici ma improvvisazione ispirata, che mette a tacere una volta per tutte i nostri dibattiti.

E un frammento dei Journey viene rapito e catturato nelle armonie di “You’re Not Alone”, dove Arnel Pineda sottrae melodie congelate nel tempo per restituirle a noi, ricongiungendo strade separate in un unico percorso musicale.

Sembra che i Revolution Saints vogliano spazzare via ogni indugio come una meteora: “Locked Out Of Paradise” non è una ballad per mammolette ma potere melodico fuso nell’indole disinibita dell’hard rock. Il coro è una sfida a valicare i confini delle nostre possibilità, senza risparmiare forze ed energia, quasi cercassimo veramente di scardinare le porte di un luogo inaccessibile.

Su questa strada, che sembra percorre il firmamento del rock melodico, raggiungiamo il sole di “Way To The Sun”, alimentato da un reattore esplosivo: l’onnipresente Deen e il mito Neal Schon, che forgia un assolo abbagliante quanto la luce del sole stesso. Con queste premesse, il coro arde e si solleva come una supernova, formata da tre astri, Castronovo, Blades e Del Vecchio, che bruciano assoli, graffiano e ingentilisco al contempo le liriche in una meravigliosa policromia.

Revolution Saints” è carico di vitalità come se questi musicisti fossero tornati ai tempi della gavetta, dei sogni e delle speranze: se pensate che “Dream On” inciti a sonnecchiare, non avete capito a fondo lo spirito indomabile di questo trio. La carica sembra sconfinata e non termina in un semplice refrain ma si consuma e osa, senza freni e senza posa in un gioco pazzo, rincorrendo i propri sogni… e, per un attimo, sembra quasi di afferrarli!

In tutta questa frenesia, “Don’t Walk Away” ha il compito di farci riprendere il respiro. Che questo serva a variare la foga della tracklist, è un fatto assodato ma la tempra del gruppo resta intatta, sempre contraddistinta da quella tensione emotiva, quella lama tagliante e sublime che ci ha sempre fatto amare questa musica.

Dopo poche battute di pianoforte, “Here Forever” accentua la passione e l’enfasi di Deen sovrasta ogni comprimario, ergendosi più forte del tempo e più forte di ogni sventura.

I Revolution Saints hanno un background importante alle spalle e non ne sono immuni: per questo motivo è verosimile sentire in “Strangers To This Life” la stessa voglia di vivere ed emozionare che animava come un fuoco sacro gli inizi di carriera. A questo punto, si potrebbe uscire con affermazioni quali “bella ma non è nuova di zecca” ma l’impellenza di suonare al massimo non viene mai scalfita. Quindi, tempi veloci e corde roventi per i Nostri che, seppure non riescono a creare questa volta il climax definitivo, tengono duro e mantengono l’impatto.

Questo non toglie che il presente del melodic rock appare più che mai fulgido, quando c’è ancora spazio per il messaggio e la musica portata in dote da una canzone come “Better World”. Castronovo auspica un nuovo inizio mentre la gentilezza di Del Vecchio e l’energico tocco di Aldrich si alternano. Un intreccio tra melodia e potenza che si riflette anche nel post chorus delicato e nel geyser del ritornello, quasi a voler innalzare un ponte ideale verso i Survivor, quando Jimi ci dimostrava che la musica va oltre il puro e semplice intrattenimento.

Prima che il cerchio si chiuda, i “rivoluzionari” rilasciano la deflagrante “How To Mend A Broken Heart”. Più che santi questi sono cowboys d’acciaio, armati di riff incalzanti ed armonie tonanti. Doug mostra i muscoli tingendo pattern e vibrati con ruvide scosse hard’n’roll. Deen rimane al microfono il leader che, grazie al fedele Blades, non arretra ma da sfogo a potenza ed orecchiabilità nel canto. Senz’altro uno dei picchi più adrenalinici e brucianti dell’intero palinsesto.

Lo spettacolo prevede il giusto epilogo nelle attese vesti della ballad “In The Name Of The Father (Fernando’s Song)”, ispirando momenti malinconici sulle note del piano.

La conclusione fa riflettere: le ballads hanno intensità e forza espressiva non inferiori alle parti più accese e roventi dell’intero platter. Per chi scrive, gli episodi migliori rimangono, comunque, i pezzi più tirati e vorticosi, dove Aldrich può esprimersi in tutta la sua velocità, mentre Deen/Blades pompano come ossessi la sezione ritmica. Discorso a parte per la splendente “Way To The Sun”, capolavoro capace di fondere le due anime del gruppo (angelica e virile) nel migliore dei modi, senza ricadere nei luoghi comuni che affliggono il songwriting della maggior parte dei lentoni rubacuori.

Detto questo, bisogna anche ammettere che l’album rivisita un hard rock, tutto sommato, di vecchia maniera, impastandolo con pulsioni radiofoniche. Tuttavia, ciò non sminuisce il valore del disco, i cui meriti, come abbiamo detto in prima battuta, risiedono non tanto nell’originalità della proposta ma nell’ispirazione della scrittura e nel calore dell’esecuzione.

In ogni caso, sapere che cosa riserverà il futuro per i nostri gringos è un’incognita e la concorrenza si profila senza dubbio agguerrita, con i Def Leppard in testa. Tuttavia, per una volta tanto, non preoccupiamoci dell’avvenire e cogliamo l’attimo presente, consapevoli che qualcuno è nato sotto una buona stella.

Eric Nicodemo

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