Recensione: Rise Of The Dragon Empire

Di Alessandro Marrone - 20 Agosto 2019 - 8:00
Rise Of The Dragon Empire
Band: Bloodbound
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2019
Nazione:
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62

Nati nel 2005 e ormai definitivamente dediti (dal 2014) alla causa del power metal più tradizionale, gli svedesi Bloodbound danno alla luce l’ottavo capitolo di una discografia invasa da dragoni, spade, guerrieri coraggiosi, altri dragoni, battaglie epiche e – indovinate un po’ – dragoni! Questo genere di tematiche si amano oppure si odiano e nonostante siano state mantenute in auge da nomi quali HammerFall prima e Dragonforce dopo, il power più classico ruoterà sempre attorno a ritmiche veloci e melodie orecchiabili, magari supportate da possenti cori e virtuosi assoli di chitarra. In questo caso non funziona proprio come vi aspettereste e non perché i Bloodbound abbiano esagerato nell’abbeverarsi al calice dell’immortalità, bensì per quello che Rise Of The Dragon Empire delinei una volta entrato nel vostro impianto stereo.

 

L’album comincia con la title-track, la quale non soltanto sembra fare l’eco a qualcosa che sicuramente avremo già sentito, ma procede ansimante su un annoiato mid-tempo, a malapena sorretto da un ritornello altrettanto stantio – per non parlare del video ufficiale, al limite del trash (nota bene, il thrash della Bay Area non c’entra nulla). Per fortuna, nell’onnipresente sottofondo eroico portato al limite del parossismo attraverso una cavalcata medievale di ben 11 canzoni, c’è la successiva Slayer Of Kings ad aumentare il ritmo – peraltro una tra le pochissime canzoni veloci dell’intero disco – e ci permette di rialzare la palpebra calante dopo i minuti iniziali di torpore. Il resto dell’album vira ulteriormente in favore di ritmi più cadenzati, mantenendo al centro dell’azione la voce di Patrick Selleby e il sostegno di una band che non possiamo definire a corto di idee, ma piuttosto timida nell’osare un pizzico oltre, soprattutto notando che il minutaggio di ciascun brano resti considerevolmente al di sotto dei cinque minuti. In alcuni episodi il tappeto tastieristico sembra prendere il sopravvento e coprire le chitarre, ma in brani come Blackwater Bay e Breaking The Beast svolge il suo ruolo a meraviglia, offrendoci altri minuti in cui tirare il fiato e non finire per essere troppo severi con Rise Of The Dragon Empire.

 

Alla fine non è affatto un disco da cestinare, a patto che vi troviate a vostro agio nelle desolate terre in cui questi miti e questi scenari siano in grado di prosperare e portare avanti un genere che fa del suo più estremo tradizionalismo un vero e proprio vanto, soprattutto a 14 anni da un esordio che vedeva i Bloodbound su sonorità più inclini all’heavy rispetto a tempi più recenti. A prescindere dai gusti personali e dal fatto che resti comunque un disco che non faccia gridare al miracolo, abbiamo bisogno di musica di questo tipo e di band che non intendano seguire trend o sacrificare la propria identità in favore di un percorso che potrebbe invece risultare più mainstream. I Bloodbound continueranno ad essere uno di quei gruppi in grado di farvi saltare e cantare a squarciagola in sede live e a quel punto, potrete anche perdonare l’orrendo dragone del videoclip o la dubbia voglia di trovare una melodia talmente esasperata da meritare di restare a corte con un giullare da strapazzo, mentre tutti noi preferiremo inseguire la gloria e cacciare dragoni.

  

Brani chiave: Slayer Of Kings / Blackwater Bay

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