Recensione: Roll The Bones

Di Mauro Gelsomini - 16 Agosto 2004 - 0:00
Roll The Bones
Band: Rush
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 1991
Nazione:
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85

Il mio primo album dei Rush.
Settembre 1991, iniziava il primo anno del liceo, e per tenermi compagnia durante le interminabili lezioni avevo deciso di puntare su qualcosa di nuovo, e per me fu veramente qualcosa di nuovo, la scoperta di una band che non smise più di accompagnarmi, tanto da rendere i suoi dischi la colonna sonora di gran parte della mia vita di lì in poi.
“Hey honey, when you’re done with that chicken, can you roll the bones?”. Questa frase fu pronunciata da Alex Lifeson durante un’intervista radiofonica per promuovere l’album, tanto per non smentire l’attitudine all’ironia dei nostri, sebbene questo album segni l’ennesima svolta nella discografia dei Rush, marcando un deciso ritorno verso sonorità progressive e in buona parte oscure, stemperando le pomposità del periodo aor, ma tornando al disco di platino.
Pomposità che non vengono del tutto abbandonate, però, dal punto di vista musicale, dal momento che molta dell’enfasi tastieristica e synth dei predecessori è qui riproposta in chiave più soft. Non è un caso che Roll The Bones fu l’ultima produzione di Rupert Hine, prima che Peter Collins creasse un capolavoro sonoro per Counterparts.
Non mancano, al solito, le sperimentazioni tipiche del trio canadese, che si risolvono nell’inverosimile electro-rap nel bel mezzo della title-track, fino a quel momento dormiente modello di prog-country-rock: come era stato per il raggae in “The Spirit Of Radio”, qui il significato è chiarificato dal titolo, “Roll The Bones”, ovvero “Tira i dadi, concediti un’altra possibilità”, geniale. L’album annovera anche un gradito ritorno alle strumentali (l’ultima era stata “YYZ” nel 1981!!!), con il funky di “Where’s my Thing?”, il cui sottotitolo, Part IV of “Gangster of Boats” Trilogy è relativo ad uno scherzo escogitato da Geddy e Alex: Neil disse che se la band non avesse scelto un titolo (nel 1987) lui lo avrebbe chiamato Gangster of Boats (che era nelle note di Hold Your Fire).
I primi due brani dell’album sono anche i migliori, forse due dei miei preferiti in assoluto dei Rush: “Dreamline” è un’opener che non avrebbe potuto sottolineare meglio il periodo in cui la ascoltai per la prima volta, con i suoi chiari riferimenti ai deliri di onnipotenza dei giovani e del loro senso di immortalità. Le elucubrazioni oniriche vengono riprese in “Bravado”, dal testo molto miltoniano, ma pur sempre d’impatto, in piena tradizione Rush-Aor.
Ancora un riferimento al gioco (stavolta delle carte) in “Face Up”, un’esortazione a voltare la carta ed affrontare la vita, anziché tenerla coperta e sprecare magari un’opportunità.
Sempre sul filone dei giochi, stavolta a premi, è “The Big Wheel”, up-tempo dal riff di stampo Ac/Dc, tanto per gradire.
Quindi si trova il tempo anche per la polemica, con “Heresy”, sugli anni sprecati del comunismo sovietico, mentre la metafisica è protagonista dei testi di “Ghost Of A Chance”, celebratrice del chaos quale artefice degli accoppiamenti umani.
Si torna ai giochi con “Neurotica”, e ci si avvicina all’apocalittico finale: al centro dell’attenzione ora è la roulette russa, in netto contrasto con la paura degli uomini di confrontarsi con i risultati delle proprie azioni; chiude la romantica “You Bet Your Life”, a riepilogare quanto detto sul gioco della vita.
Vista la mia predilezione per l’Aor, forse all’epoca avrei preferito che i Rush proseguissero sulla strada di Hold Your Fire, Power Windows e, appunto, Roll The Bones, ma oggi mi rendo conto che una band così non ti da’ mai quello che ti aspetti, e il suo essere unica è la convinzione – postuma – che il cambiamento fosse esattamente logico.

Tracklist:

  1. Dreamline
  2. Bravado
  3. Roll the Bones
  4. Face Up
  5. Where’s My Thing?, Pt. 4: Gangster of Boats Trilogy
  6. The Big Wheel
  7. Heresy
  8. Ghost of a Chance
  9. Neurotica
  10. You Bet Your Life

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