Recensione: Roots

Di Beppe Diana - 26 Maggio 2002 - 0:00
Roots
Band: Mantra
Etichetta:
Genere:
Anno: 2002
Nazione:
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83

Ragazzi basta, perché se continuo così mi scoppiano le coronarie!!!! E si, non ho passato mai un momento così intenso della mia vita in cui la scena hard’n’heavy di casa nostra, mi abbia dato tutte queste soddisfazioni come negli ultimi tre quattro mesi a questa parte. E  se il mio portafoglio oramai si è abituato a restare sempre a secco, stavolta devo ringraziare il sig. Dehò e la sua Lucretia records che mi hanno permesso di entrare a conoscenza di questo nuovo super act denominato Mantra.

 A dispetto di un nome che evoca visioni ancestrali e la spiritualità della religione induista, i quattro musicisti che si celano dietro a questo progetto sono italiani a tutti gli effetti, infatti i Mantra non sono altro che la reincarnazione del progetto Mad Mice, seminale band hard rock che, nata agli inizi degli anni novanta, è riuscita a produrre solo un mini album, poi destinato al mercato tedesco, ed un ottimo video che fu trasmesso da MTV Europe e da Viva. Super gruppo dicevamo, in fatti della partita fanno parte oltre all’apprezzato vocalist Jacopo Meille, già in azione con i Clown Killer dell’ep  “The Joker’s affair” ( a proposito, ma che fine hanno fatto? NdBeppe), l’ottimo chitarrista Gianluca Galli, da poco uscito con il suo primo album totalmente strumentale a titolo “Rock Religion, lo storico bassista Andrea Castelli, visto più volte in azione con Cappanera, Airspeed e Shabby Trick, e il giovane talento Senio Firmati dietro le pelli, quattro eclettici musicisti che danno vita ad un album che potremmo paragonare come ad un trip sonoro che collega l’animo e i sensi, estasiandoli ascolto dopo ascolto.

Un platter che cela dietro i suoi solchi un grande lavoro a livello di songwriting, infatti da quello che si evince già dal titolo, la band è andata alla riscoperta delle proprie radici sonore che trovano la loro giusta dimensione nell’hard rock seventies style di bands come Mott the Hoople, Yardbyrds e Led Zeppelin soprattutto, ma che non disdegnano accostamenti all’hard blues hendrixiano e alla musica orientale indiana. Tredici  brani che uniscono tecnica sopraffina, fantasia creativa e raffinatezza compositiva il tutto dosato e filtrato attraverso una verve elettrica, per un cocktail che definire esplosivo sembra abbastanza riduttivo. Giuro che ascoltando “Roots” nella sua interezza, ho più volte pensato che questo album potrebbe rappresentare l’anello mancante fra “Houses of the holy” e il più celebre volume “IV” del dirigibile albionico, tanti sono i punti di contatto fra il talento artistico del celebre Zep-four e quello in possesso dai nostri quattro Mantra.

E già, i nostri quattro amici sembrano aver fatto tesoro della lezione impartita dai maestri inglesi, a cominciare dal talento canoro del buon Jacopo che, con un’ugola che sembra la perfetta “clonazione” del migliore Plant d’annata, più volte sfiora picchi davvero irraggiungibili, alla perfetta miscela sonora attuata da una band che sa perfettamente districarsi fra momenti più elettrici e divagazioni acustiche dal gusto folk, e parti più dilatate ed orientaleggianti, alla “Kashmir” oserei dire. Infatti, non per niente lungo l’ascolto del disco in questione ci si imbatte più di sovente in strumenti come il mandolino, a sei o a dodici corde, o il sitar, suonato dall’ospite Fabrizio Biliotti, strumenti tipici di culture musicali ben distanti dal tipico approccio hard rock che rappresenta comunque l’ossatura di “Roots”.

Dunque una band che sa come colpire il cuore dell’ascoltatore e che fa pieno sfoggio di un’abilità artistica degna di nota, a tal uopo ascoltate il rifacimento della celebre “Ramblin’ on my mind” dell’angelo ribelle Robert Johnson, resa in maniera totalmente diversa dall’originale, con parti di testo addirittura stravolte, in cui i quattro dimostrano d’avere parecchie frecce al proprio arco. Così dalle sferzate energetiche hard dell’accoppiata iniziale “Different sky” e “Dirty river”, si passa all’emozionanti visioni ancestrali di “The architectures of the sky”, un brano zeppelliniano sino al midollo, per arrivare alle foce elettro-acustico di “Alma metter”, un brano che mi ha più volte riportato in mente i Litfiba di “17 Re”.

Lo spettro della band del duo Page/Plant ritorna ad aleggiare sulle coinvolgenti “Homless” e “Don’t call me jesus”, sfido chiunque a restare inermi di fronte a cotanto splendore sonoro, con un Gianluca Galli in grado di incatenare una serie di riffs che uniscono perizia  tecnica e  feeling, doti  in possesso solo ai grandi chitarristi. Un disco dunque che, anche se richiede alcuni ascolti per essere apprezzato nella sua interezza, saprà risvegliare vecchie emozioni assopite nei cuori di chi ha dimenticato che la musica è soprattutto questo!!!! Indispensabile.  

Beppe “HM” Diana

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