Recensione: Roots of Eternity

Di Mattia Di Lorenzo - 12 Maggio 2007 - 0:00
Roots of Eternity
Band: Manticora
Etichetta:
Genere:
Anno: 1999
Nazione:
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82

Anno 1999.
Anno molto importante per il power metal: si formano Freedom Call, Battlelore, Luca Turilli, Dragonforce e Demons&Wizards. Debuttano i Sonata Arctica con Ecliptica, i Vision Divine con l’album omonimo e… i Manticora con Roots of Eternity!
Da subito, la fortuna commerciale non arride ai danesi, in formazione parecchio diversa da quella attuale. Ma sin dalla prima uscita il materiale musicale proposto è di primissima qualità, degno di essere ricordato a otto anni di distanza, sebbene le vendite non siano salite alle stelle.
La line-up originale prevedeva Flemming Schultz come chitarrista solista, Jeppe Erg come tastierista e Rene come bassista, tutti membri che lasciarono la band dopo il secondo album, nel 2001.
Anche la proposta musicale era un po’ diversa da quella attuale, sebbene l’unità stilistica ci sia, e sia da ricercare nell’impostazione vocale profonda e quasi thrash di Lars: si trattava di power teutonico molto melodico, molto più di adesso, con linee vocali di facile assimilazione, votate all’intrattenimento immediato. Cura maniacale dei dettagli, questo sì; ma senza disegni complessivi degni di nota, con testi dal repertorio fantasy-fantascientifico senza grosse pretese “intellettuali”. Il germe dei futuri concept emerge nella “Saga of The Exiles”, raccontata in quattro canzoni, due qui (Nowhere Land e The Flood) e due sull’album successivo. Ma nel complesso nulla di paragonabile a Hyperion, 8 deadly sins, o al fenomenale Circo Nero.

Data questa come premessa, e cioè una musica molto più semplice e diretta di quella attuale, Roots of Eternity è un debutto coi fiocchi (dopo il demo-EP del ’97 Dead End Solution), confezionato con cura e prodotto splendidamente. Almeno sette titoli su dieci potrebbero essere dei singoli. La qualità tecnica e il talento si sprecano.

Ma passiamo all’analisi traccia per traccia.
…From far Beyond è l’introduzione “strumentale” più strana che abbia mai sentito. Si tratta di qualche secondo di rumori indecifrabili, assolutamente inutili, se non per riconoscere immediatamente di che cd si tratta proprio dall’assurdità dell’intro. Avrà un senso per i Manticora: io non so dire. Che sia il Nulla di cui parla la canzone successiva?
When Forever Ends è invece un accattivante biglietto da visita per la band, concentrato di power melodico estremamente orecchiabile, ma non per questo “effeminato”. La batteria e le chitarre strepitano furiose, i riff sono potenti ed azzeccati. La strofa è una delle più ariose di tutta la carriera Manticora, le tonalità chiuse e cupe del Nord sono assolutamente assenti. Da segnalare anche il passaggio centrale lento e sentito e il fantastico solo di chitarra nella sezione finale. In tutto più di sei minuti di canzone, scorrono lisci come l’olio.
The Vision continua la tendenza della traccia precedente, su ritmi più tranquilli e leggermente più pesanti e rockeggianti. C’è qualcosa dei Sonata Arctica nel ritornello corale, qualche sparuto punto in comune con quell’Ecliptica che usciva contemporaneamente. Si vede che quella musica era nell’aria. Di certo non si conoscevano. Il solo mostra ancora le doti tecniche e melodiche di Schultz. I Manticora di adesso forse rimpiangono un così dotato chitarrista…
Con Intoxicated si intravede il gruppo che sarà poi, amante del prog e, soprattutto, del thrash. La canzone stilisticamente sembra tratta direttamente da Train Of Thoughts dei Dream Theater; con buona pace dei detrattori e della linea del tempo. Ascoltate il ritornello a botta e risposta con coretti urlati, poi ditemi se non ho ragione. Nel complesso, questo è il titolo più sperimentale dell’album, che personalmente ritengo molto riuscito. Sintomo che, va bene melodia e power facile, ma in Roots of Eternity non manca nemmeno la varietà.
In accordo con la struttura complessiva dell’album, che a questo punto esigeva un lento, ecco una bellissima ballad, Beyond The Walls Of Sleep, per me assolutamente la migliore dei Manticora. È vero che non si tratta certo di un gruppo dalle ballad indimenticabili, ma questa qui è davvero di prim’ordine. L’elogio va ancora alle chitarre, qui presenti in “versione acustica”. Sono loro, più che le tastiere, a dare il tono globale alla canzone. Per azzardare un paragone illustre, siamo sulla scia di The Bard’s Song. Non voglio entrare nel confronto diretto. Vuole solo essere un elogio alla bellezza della canzone.
Ed eccoci alla “Saga of Exiles”. Il portale temporale si apre, ecco Nowhere Land. Qui la parte del leone la fanno il veloce ritornello e il mega-riffone che lo segue, che sembrano fatti apposta per la sede live. Ma i Manticora le eseguiranno ancora queste canzoni? Chissà! Di certo il “retroterra” melodico per prestazioni coinvolgenti ce l’hanno eccome!
The Flood è una canzone mista lento-veloce, che alterna il cantabile al “granitico”. È, con la canzone conclusiva, il momento di maggior impegno del cd, coi suoi nove minuti abbondanti. I Manticora ci sanno fare con le costruzioni faraoniche, lo hanno dimostrato in più occasioni. Il segreto? Mantenere alcuni temi fissi, con strutture armoniche e ritmiche ricorrenti, per dare all’ascoltatore una sensazione di continuità nonostante l’estrema varietà delle situazioni proposte. È un espediente che deriva direttamente dai grandi maestri della musica classica, che da piccoli incisi costruivano sinfonie intere. Se volete essere certi che i Manticora lo facciano consapevolmente, rivolgetevi a The Black Circus… Tornando a noi, gli influssi nella canzone sono molti, non ultimo un frangente prog non troppo spinto. Si concede spazio anche al recitato… ma tutto scorre, con una semplicità davvero invidiabile.
La vicinanza col power melodico scandinavo torna a farsi sentire in Pale Faces, che avvicinandosi un po’ troppo agli Stratovarius più canonici, è uno dei pochi episodi solo discreti del debutto. Per altri gruppi potrebbe essere addirittura l’elemento forte, comunque. Ed è una cosa da tenere in considerazione per capire a che livello sono questi ragazzi.
Private Hell continua sulla linea della canzone immediatamente precedente, semplificandone ulteriormente la struttura. In questo caso però l’esito è migliore. Purchè ascoltata nell’ottica giusta, ossia nell’assenza totale di qualsiasi pretesa, questa può anche essere considerata una buona traccia. In grinta e velocità ci danno dentro. È puro divertimento. Ci sta.
Si chiude con la title-track, divisa dai nostri in quattro parti distinte, forse per paura che la complessità di costruzione potesse rendere ostica la ricezione all’ascoltatore. In realtà la canzone è più lineare di quanto sembri, sicuramente molto più di The Flood. In questo caso l’attenzione ricade maggiormente sul testo, che è uno dei pochi degni di nota in un album in tal senso (stranamente) abbastanza sterile. La canzone racchiude e riassume tutti gli elementi positivi di questo primo album: melodia, intensità, potenza, influssi di frange più pesanti del metal, soli memorabili.

In complesso, l’album è davvero molto molto buono. Personalmente preferisco gli ultimi Manticora, che sono dei veri maestri nella composizione di concept di ampio respiro. Ma, ripeto, quando ci si trova di fronte ad un debutto così sicuro, non si può rimanere indifferenti. Soprattutto se si ama il power aggressivo e melodico ma non scontato, e si è anche un pochino aperti alle altre frange della musica metal.

P.S: Del CD esiste una riedizione del 2005 distribuita dalla Massacre Records, con 2 tracce bonus dall’EP “Dead End Solution” del ’97 (How? e The Pain You Offer) e un artwork differente.
 
Tracklist:
1. …From Far Beyond
2. When Forever Ends
3. The Vision
4. Intoxicated
5. Beyond The Walls OF Sleep
6. Nowhere Land
7. The Flood
8. Pale Faces
9. Private Hell
10. Roots Of Eternity

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