Recensione: Rough on High Seas

Di Daniele D'Adamo - 3 Giugno 2018 - 17:22
Rough on High Seas
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2018
Nazione:
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78

Tutti i generi / sottogeneri metal, ormai, non conoscono più confini nella loro propagazione in tutti i Paesi del Mondo. Così, in barba a una tradizione sostanzialmente anglosassone, i greci Above Us The Waves mietono lusinghieri risultati nel campo del metalcore. E quindi, dopo il debutto nel 2013 con “Anchors Aweigh”, è adesso l’ora del secondogenito, “Rough on High Seas”.

Il quintetto di Kavala, tuttavia, non si lancia a capofitto nelle spire del più facile (solo apparentemente) melodic metalcore, cercando difatti di tenere in vita il flavour hardcore che contraddistingue la foggia delle sue fondamenta musicali. Non solo melodia, pertanto, in “Rough on High Seas”, ma anche durezza e fierezza. Fierezza di appartenere, seppure in parte, a una corrente musicale dai significati profondamente anticonvenzionali e dalle mille possibilità stilistiche.

Malgrado queste premesse, è però quando alzano l’asticella delle armonie *-core, che i Nostri riescono esprimere al meglio le emozioni che albergano in essi e che abbisognano della musica per essere proiettate all’esterno. Prova ne è la stupenda opener-track, ‘Drowning Not Waving’, brano che delinea alla perfezione i contorni del melodic metalcore sia nel tema trattato, sia nel titolo, sia nell’incedere classico verso un chorus dalla mirabile bellezza. Chorus triste, malinconico, pregno di salmastro, che rende immediatamente consci della bravura di una band in grado di pestare duro e di accarezzare le membrane timpaniche, contemporaneamente. Senza dimenticare gli struggenti cori di sottofondo che, come non mai, tipicizzano lo stile proposto da Vangelis Papavasileiou e i suoi compagni. Cori che rimandano all’epopea delle esplorazioni via mare, con la brezza oceanica che sferza viso e capelli, e il salmastro che intasa ogni poro del corpo.

Pure ‘Afterlife’ ricalca la magia melodica di ‘Drowning Not Waving’, a anche se l’occhio, stavolta, è leggermente rivolto alla dura violenza dell’hardcore. Che, a dire il vero, non guasta affatto per rallentare un po’ il gorgo emotivo attivato dalla meraviglia dei già citati cori, anche qui presenti con particolare intensità. 

Ovviamente non mancano i tremendi stop’n’go, o breakdown, caratteristici della tipologia stilistica di cui trattasi (‘Light the Flare’) ma, ancora una volta, c’è sempre un pizzico di melodia per addolcire una miscela altrimenti troppo secca e tagliente.

Le due chitarre svolgono un lavoro notevole, concentrato soprattutto a erigere un consistente muro di suono sul quale disegnare sagome delicate e profonde quando l’oggetto della disanima sono gli assoli. Possente e stentorea la sezione ritmica, precisa e ficcante, ideale complemento anzi forza motrice per un sound moderno e pienamente formato. Chiudono il cerchio della formazione le harsh vocals di Papavasileiou, non esageratamente scabre epperciò ideali per narrare, intelligibilmente, le storie che animano la parte testuale di “Rough on High Seas”.

Assai evocativa di viaggi per mari la title-track, possente e imperiosa, dalle forti tinte drammatiche, forse indicanti le leggendarie gesta degli eroici esploratori antartici a inizio del secolo scorso. Momenti d’introspezione si alternano alla potenza del metal, donando al brano un’altalena di umori dal grande effetto sentimentale. Sicuramente la canzone migliore del lotto, nobilitata anche da soli di accorata e pregevole natura.

Certo, lo stile degli Above Us The Waves non è di quelli che lasceranno un segno importante nella Storia del Metal, poiché simile ad altri, ma le song da loro composte colmano il gap giacché esse, una per una, sono delle piccole chicche da assaporare con calma per socchiudere gli occhi.

E sognare.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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