Recensione: Sacred Son

Di Stefano Santamaria - 29 Novembre 2017 - 17:57
Sacred Son
Band: Sacred Son
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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80

Ci siamo casualmente imbattuti sul primo lavoro discografico della one-man band Sacred Son,  o meglio, su un articolo apparso on-line sulla curiosità suscitata dalla copertina del medesimo. Un ragazzo sorridente al sole, occhiali, cornice marittima. Niente di strano fin qui, se non fosse poi per il logo della band, decisamente black metal. La cosa ci ha colpiti, approfondendo allora l’ascolto del projct e trovandosi poi di fronte in effetti ad un sound classicamente devoto alla nera fiamma.

Qualcuno può darsi storcerà il naso, ma noi pensiamo questa sia un’alternativa coraggiosa da parte dell’artista. Scelta sicuramente controcorrente che vuol dimostrare come qualche spuntone di ferro, slogan e faccia pitturata non siano segno di buona musica e di black metal

Pensandoci, molto spesso questo è solo un trend di mercato, come quello dei tanto bistratti artisti pop. La differenza quindi dove starebbe? La limited edition, l’artwork super arzigogolato prodotto dall’illustratore pagato per stupire con immagini forti e poi? Nulla più. Sacred Son ha forse anch’egli voluto attirare l’attenzione su di sé, ma lo ha fatto indubbiamente affermando un concetto che troppo spesso si dimentica: non è l’abito a fare il monaco (in questo caso il blackster). 

L’omonima uscita è un concentrato di epici concetti, su una base freddamente black che soffia incessante per tutta la durata del full-length. Il ritmo viene spezzato da acustici fraseggi, tappeto di gelide chitarre, vento che soffia e sul quale restano, solo per un breve lasso di tempo, le orme di una vita sofferta. Ci giriamo di sfuggita a vederne i bordi ormai quasi sbiaditi, voce graffiante, strutture che vanno via via crescendo in un’ideale epica cavalcata. 

Dane Cross, così si chiama l’artista, si ispira alla old school del filone, mescendo elementi distorti ad ambientazioni che ci riportano alla mente la scuola più vetusta dalla Norvegia. In mezzo a ciò poi spiccano istanti di thrash e rock, stacchi improvvisi di chitarra che vanno decisamente oltre a talune definizioni. Full-length di mezz’ora abbondante di musica che vi consigliamo vivamente, al quale ci sentiamo legati anche per questa voglia di frantumare cliché. Noi pensiamo sia un modo intelligente di far comprendere come non conti il marketing, il face painting o il bracciale borchiato, ma esclusivamente la musica. 

Sacred Son” è un contenitore ricco di contenuti, una sorpresa piacevole che vi consigliamo se amate il black, quello genuinamente vero ed espressivo.

 

Stefano “Thiess” Santamaria

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