Recensione: Samen

Di Stefano Santamaria - 26 Marzo 2017 - 0:00
Samen
Band: öOoOoOoOoOo
Etichetta:
Genere: Avantgarde 
Anno: 2016
Nazione:
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75

Spinti dalla curiosità di comprendere meglio cosa potesse regalarci una band battezzata öOoOoOoOoOo, ci siamo cimentati nel loro primo lavoro in studio.

“Samen”, così si intitola, non va lontano dalle insolite aspettative accese da un monicker così particolare. Il sound proposto è infatti una moltitudine di citazioni, di personalissime divagazioni e voglia di sperimentare assai marcate. Per fantasia e frenesia, ci sono subito piombati davanti agli occhi progetti quali Mindless Self Indulgence e System of a Down. Partiamo così da una struttura dei pezzi che per follia e sonorità vera e propria ci rammenta l’avantgarde, il rock alternative e più in generale, il nu metal. In tutto ciò poi potremmo anche aggiungere i Mr Bungle, per attitudine e genialità. La voce femminile dona uno spettro ampio di tonalità, partendo da Patti Smith, passando da Bjork, ed arrivando ad Angela Gossow

Spontaneamente vi verrà da dire: ma di che diavolo stiamo parlando? Eppure è così, questo disco è un vero concentrato di più disparati filoni musicali ed espressioni, tant’è che il black viene preso in causa in più punti. Ovviamente sono sfumature di un progetto poliedrico che gironzola saltellando nel rock e nel metal, lasciandosi andare a lapilli jazz, ed affondando poi il colpo in svariate influenze. 

Impulsi electro liberano frenesia ed energia, trasportandoci in una giostra in cui tutto luccica, ed in cui il divertimento non si pone limite alcuno. L’estrinsecazione di ogni particella di sé viene perfettamente veicolata nelle vivacissimi note degli artisti, frammenti di specchio in cui ognuno di noi può trovare qualcosa di sé. 

Gli öOoOoOoOoOo  sono sbarazzini e poi cupi, riflessivi e genuinamente fanciulleschi, muovendosi tra universi che parevano inconciliabili, ma qui intersecati in un groviglio di armonie e accelerazioni; una vera e propria montagna russa in cui sferragliare. Se dovessimo inquadrarvi i nostri in un’univoca classificazione non ci riusciremmo, e poi: perché dovremmo farlo? A conti fatti, l’anima della gelida fiamma black metal avvampa e soggiace nella propria malignità, ma ciò su cui si muove è un tessuto dalle molte stoffe cucite l’una all’altra, creando una nuova maschera da cui restiamo abbagliati.

Se non siete di larghe vedute lasciate perdere, perché il rischio è di restare impantanati in un full-lenght indigesto, e che a tratti pare voglia strafare.

Stefano “Thiess” Santamaria

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