Recensione: Samurai

Di Eric Nicodemo - 15 Aprile 2013 - 7:00
Samurai
Band: Grand Prix
Etichetta:
Genere:
Anno: 1983
Nazione:
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90

Se è possibile definire la NWOBHM come una corrente musicale –  per così dire l’incipit di una nuova stagione dopo i fasti degli anni ’70 (dominati dai “soliti noti” quali Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath) – non si può ricondurre a questo movimento un unico stile ma piuttosto molteplici scelte d’espressione, a volte anche profondamente diverse e in antitesi tra loro (basti pensare a Venom e Def Leppard).

E’ facile trovare, infatti, analogie tra svariati complessi del periodo ma è anche vero che è difficile ascrivere nel classico sound della NWOBHM bands che operavano in campi vicini al punk (Raven, tanto per citarne una) o formazioni di pomp rock, tra i quali i protagonisti di questa recensione, i Grand Prix.
Nati dalle ceneri dei Paris (1978) ad opera di Phil Lanzon (tastiere) e Michael O’Donoghue (chitarra), i Nostri si accasano inizialmente con la RCA, dando alle stampe l’omonimo album con alla voce Bernie Shaw (in seguito con gli Uriah Heep): le coordinate musicali sono quelle di un heavy rock che si avvale di tastiere per creare un mood ricco e a volte pomposo, quasi orchestrale, sulla falsariga dei Toto e dei Magnum, ma con uno stile già personale ed ispirato.    
Con il secondo album, “There For None To See”, Shaw viene sostituito (non senza polemiche) con il talentuoso McAuley (futuro frontman degli MSG). Le scarse vendite del nuovo album causano la rottura del contratto discografico con la RCA, con la quale i rapporti si erano già incrinati alla fine del tour di “There For None To See”.
Fortunatamente, la situazione viene risolta dato che alla RCA subentrò (in tempi ragionevoli) la Chrysalis (poi assorbita dalla EMI), label nota in campo rock per aver prodotto e sponsorizzato complessi quali gli UFO, gli MSG e i Pat Benatar.
Con solo un mese di tempo per effettuare le registrazioni in studio, la formazione riesce a perfezionarsi e a trovare l’apice compositivo con “Samurai” (1983).
L’essenza del disco risiede nel perfetto bilanciamento tra tastiera e chitarra, dove la prima arricchisce il suono della seconda, senza mai rubarle la scena; questa sintesi è merito dell’attenzione e della cura di Lanzon per gli arrangiamenti, principale compositore di quasi tutte le canzoni nonché colonna portante della band, come il celebre capostipite Ken Hensley degli Uriah Heep, senza parlare di DeYoung (Styx) o Rick Wakeman (Yes).

L’opera illuminata di Lanzon è già evidente fin dalla prima traccia, “Give Me What’s Mine”: la tensione emotiva nasce dall’intreccio tastieristico, mentre la chitarra si snoda in prolungati fraseggi sorretti dal chorus sofferto, creando un’intesa perfetta tra parte strumentale e cantato.
Tra la prima e la seconda composizione si inserisce, come contrappunto, “Shout, hooker song“ dal ritmo cadenzato, quasi “intimidatorio”: la voce si fa aspra (Now, listen to me! E’ un ordine perentorio!), la chitarra è compatta quasi come il drumming roccioso della batteria; il coro incendia con il ritornello (Shout-Turn it up louder!), giocato su tonalità alte e insistite; la sei corde si incastra nel mezzo della composizione con un groove incalzante, a scale discendenti.
Le atmosfere lievi e sofferte ritornano in 50/50: il suono delle tastiere si dilata per creare un effetto passionale assieme ad un arpeggio malinconico; si innestano gli archi per amplificare la tensione emotiva (come nell’inframezzo di “Still Of The Night” dei Whitesnake), mentre la voce trasognata aleggia e si irrobustisce con il contributo dei backing vocals, secondo uno schema in cui il ritornello culla l’ascoltatore (nel main vocal) e lo trasporta con energia “controllata” (nel chorus).
“Here We Go Again” ha il saveur delle grandi composizioni radiofoniche: i vibrati solari, dalle tonalità stridule, lasciano spazio alla voce velata, sulle note sfumate della chitarra. Con l’emergere dei backing vocals, il tono del cantante diventa più forte per valorizzare le parole del testo: la voce si fa più acuta e si eleva, quasi a simulare sofferenza emotiva e tensione passionale; segue il chorus, mai smaccatamente ruffiano ma sempre avvolgente.    
In “Countdown To Zero” ogni accorgimento strumentale e ogni effetto vocale è studiato per conferire grande drammaticità all’insieme, con l’intenzione di riprodurre i voli spericolati dei kamikaze, i protagonisti indiscussi della canzone. L’assolo d’apertura è rampante, quasi come uno zero giapponese che sorvola i cieli, scandito dai midtempos della batteria; la voce è ruvida quanto basta fino a diventare epica con il contributo dei backing, che hanno l’apice tonale nel ritornello; le parole “Crawling in the shadows […]” vengono interpretate in modo che la voce emerga in crescendo dal suono degli strumenti in sottofondo, per simulare un aereo che aspetta il momento propizio per attaccare, “trascinandosi” attraverso l’oscurità (shadows) delle nubi. La sensazione che si ottiene è che lirica e songwriting costituiscano un unico linguaggio, il tutto arricchito dall’alternanza tra frontman e vocals, un botta e risposta dove la voce del primo si trova ad una tonalità più alta rispetto all’effetto d’eco riprodotto dai backing.
Un riff lento, “rauco”, quasi un rombo di un motore, apre “Somewhere Tonight”, dove il frontman cede all’inflessione street, inasprendo la voce, prima di declamare il titolo della sesta track. Immediatamente, l’ugola di Robin riacquista il sopravvento e i vocals la sostengono secondo un schema predefinito, in cui vengono ripetuti pezzi di strofe per amplificare l’impatto e per creare un maggior trasporto.      

“So High” culla l’ascoltatore sulle note rallentate e soffuse della tastiera, un connubio perfetto con l’interpretazione malinconica di Robin, che accentua la voce in corrispondenza dell’inserimento della batteria e la eleva in crescendo: la duttilità del main vocal è tale che il registro muta senza fatica da un timbro tenue ad uno più aspro e deciso, quasi sprezzante. Il frontman svanisce per un breve refrain, da cui sfocia il ritornello; il climax successivo è una progressione ascendente e discendente delle keyboards che si innesta come una chiave di volta nella composizione. La canzone procede con lo stesso schema, variato da una guitar session ritmata dal drumming e basso; dopo una breve pausa, il ritornello si ripete prima della conclusione.
“Never Bifore” usa i suoni sepolcrali dell’organo hammond come suggestivo prologo, giusto il tempo perché il basso galoppante lo releghi a comprimario; la voce è decisa ma non altera mentre si fa squillante nel chorus, in un passaggio dove la chitarra duella con la tastiera mentre backing e main vocals duettano. Non può mancare il momento di assoluto protagonismo per la chitarra, in una guitar session che predilige cambi di tempo, distorsioni e giochi d’effetto (vibrato e bending su tutti).
Arriviamo a “Freedom” e si ritorna a tempi sincopati, un mood duro e roccioso che nasce dalla sinergia di piatti e chitarra, in rilievo nei refrains. L’apice narrativo è culminato dalle voci all’unisono che gridano “Freedom you cry!”. Il segreto di avvincere l’audience sta tutto lì: armonia (voci alte) e potenza (ritmica bilanciata ma vibrante), unite in un unico abbraccio sinfonico.
La title track è l’entusiasmante commiato dell’album: Lanzon si serve di tastiere e sintetizzatori per ricreare atmosfere orientaleggianti adatte al tema trattato, ispirandosi alle tipiche sonorità del lontano oriente (come il motivo popolare “Little China”). All’interno di questo set onirico, Robin narra le lotte feudali nell’antico Giappone, con voce surreale e malinconica; le variazioni tonali del vocal servono a dare un maggior impatto emotivo: il cantante accentua e abbassa l’intonazione e la parola “Samurai” cresce sempre più chiara e distinta, quasi una preghiera, una chiamata, sostenuta dalle voci corali. Il rullare di batteria esplode e la chitarra sorprende con gli assoli mentre l’orizzonte narrativo acquista realismo grazie all’interpretazione struggente di McAuley.
La padronanza nel controllo della voce da parte del frontman è spiazzante: chorus e main vocal duettano e combaciano nel ritornello, fondendosi in un unico suono armonioso, mentre la tastiera risponde con delicatezza. All’interno della canzone ci sono ben tre inframezzi musicali, che conferiscono dinamicità ad un brano vario e mai banale: il primo è una jam session di chitarra-batteria-voce, il secondo è giocato su un motivo analogo al primo, il terzo ed ultimo, infine, è una gemma dove la chitarra brilla di luce propria, feeling puro, la cui anima vibra negli assoli cangianti e dilatati.

L’album si avvalse della produzione di John Eden, già conosciuto per aver lavorato con gli Status Quo. Sebbene Eden fu scelto essenzialmente per ragioni di immediata disponibilità, la decisione si dimostrò azzeccata visto che il producer seppe conferire al disco un suono pulito e bilanciato, perfettamente in sintonia con l’equilibrio compositivo che pervade tutto il lavoro.
Purtroppo, né l’elevata performance dei musicisti (in termini di songwriting ed esecuzione), né la produzione consentirono di ottenere il successo di pubblico tanto sperato e agognato.
Il fallimento del disco è probabilmente da ricercare nel fatto che ai Grand Prix vennero spesso preferiti complessi dal suono più tellurico o meno sinfonico: infatti, non è un segreto che il tour di supporto agli Iron Maiden mise ancora di più in evidenza questo divario, sebbene l’esibizione dei Grand Prix non fu seconda a quella delle “Vergini di Ferro”. Chi decretò la fine del complesso (oltre ad un pubblico impietoso) fu la stessa Chrysalis: i demo inviati all’etichetta (Angel e One By One) dovevano costituire l’inizio del prossimo disco ma non vennero mai pubblicati, sebbene la stessa label avesse dato giudizi positivi sul nuovo materiale.
Da qui, l’abbandono del progetto: il primo ad andarsene fu il batterista Andy Beirne, che si unì ai Lionheart di Dennis Stratton; Phil Lanzon entrò a far parte degli Uriah Heep nel 1985 (assieme a Bernie Shaw) mentre McAuley militò prima nei Far Corporation e poi si stabilì nei ben più famosi MSG, dando vita agli McAuley Schenker Group (Robin ha anche suonato recentemente per i Survivor…); O’Donoghue formò i Blueprint (in tour con la Ian Gillan band) mentre il bassista, Ralph Hood, venne arruolato dagli spagnoli Tarzen.

Per chi scrive “Samurai” rimane l’album cardine del 1983 (con “Holy Diver”, “Pyromania” e “Piece of Mind”): ai Grand Prix è stato negato il successo ma la grande musica è immortale e Samurai è qui a testimoniarlo!

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