Recensione: Satyricon

Di Tiziano Marasco - 11 Settembre 2013 - 2:42
Satyricon
Band: Satyricon
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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59

Cinque anni di silenzio sono tanti per una band importante come i Satyricon, soprattutto se fanno seguito a quello che è il meno esaltante dei loro dischi, vale a dire The age of nero. Non che questo album fosse un fiasco totale, semplicemente non spostava di una virgola il discorso portato avanti da Frost e Satyr con Volcano e Now diabolical, riuscendo perciò nell’intento di essere un po’ scialbo. Il che, per una band abituata sempre e comunque a fare i porci comodi con la loro musica, infischiandosene sornionamente dell’opinione dei fan, risulta come un chiaro passo falso. Ragion per cui questo nuovo omonimo disco hacreato parecchie aspettative intorno a sé, con il non secondario aiuto del mastermind Sigurd Wongraven, che nelle interviste promozionali spende sempre parole d’elogio per i suoi nuovi nati. Azione comprensibile, ciascun artista è orgoglioso del proprio lavoro, certo che presentare ogni disco come il nuovo Rebel Extravaganza alla lunga stufa e piuttosto suscita nel fan una certa diffidenza.


Ad ogni modo, possiamo dire subito ed a scanso di equivoci che i cinque anni di pausa hanno giovato ai nostri, che tornano alla carica con un disco decisamente ambizioso, seppure molto ricco e di luci e di ombre. L’ambiziosità è riscontrabile sin dalla lunghezza dei brani, siccome dalla presenza di veri e propri intro ed autro strumentali, elementi che svelano le carte solo in modo parziale.

Alti e bassi, dicevamo, e partiamo per ovvi motivi da questi ultimi: le coordinate di questo album non si presentano molto diverse da quanto si era sentito nelle ultime uscite, e alcune song sono condannate sul nascere all’abisso della banalità. Su tutte un pezzo come Tro og kraft, guidato da ritmi lenti, cadenzati e monolitici che vorrebbe essere ipnotico ma riesce solo noioso. Di pari passo vanno Nocturnal flare, che pure partirebbe dotata di buon groove, ed Ageless northern spirit. Poco sopra si piazza il brano promozionale, Our World, It Rumbles Tonight, che vive del contrasto di una strofa groovosa interrotta a viva forza con decisi rallentamenti. Convince molto di più invece Nekrohaven, che avrebbe potuto essere usata con miglior risultato come brano promozionale, trattandosi di un brano di black’n’roll classico, non innovativo, ma indiscutibilmente efficace. 

 
E con Nekrohaven, uno dei tre veri highlight del disco, iniziamo a occuparci degli alti. Vengano ora gli altri due. Il primo è naturalmente Phoenix, e non solo per la voce pulita (di Sivert Høyem) che vi caompare in luogo dei growl monocorde di Satyr. Qui infatti si rivela in tutto il suo fascino una componente nuova della musica satyrica, ovvero la musica dark e proto gothic degli anni 80 e 90, quella che ha trovato il suo migliore cantore nel Nick Cave di Let love in (un nome ed un disco che affiorano alla mente più d’una volta durante gli ascolti di quest’album). Spiazzante, sacrilega secondo alcuni, ma pungente, anzi, davvero convincente ai nostri orecchi! Altra menzione menzione per The infinity of time and space, indiscutibilmente il pezzo più articolato della lista, otto minuti scarsi a cavallo tra sonorità black prima maniera, black cosmico sulle tracce degli Enslaved di Monumension, ed ancora una volta quell’alone dark caeviano. Un pezzo più che buono, ma che fa affiorare una verità preoccupante. Pur’essendo, e di gran lunga, il brano più ostico del disco, è anche il primo a lasciare tracce sensibili nei padiglioni auricolari, assieme ovviamente a Phoenix. Man mano che gli ascolti procedono, ad emergere dalle tonalità monocordi di questo platter sono solo questi tre pezzi, e per molto tempo. 

Motivo?

A dispetto delle multiformi influenze, è chiaro che il sound satyrico sia comunque rimasto vincolato alla ripetizione di riff semplici, cadenzati, meccanici e ripetitivi. E qui casca il palco, perché, elitario quanto si vuole, ma un disco basato su riff semplici e ripetitivi dovrebbe stamparsi in testa con pochi ascolti, vedasi Now, diabolical; invece in questo caso il’album trascolora ogni volta dall’inizio alla fine senza colpire nel vivo, eccenzion fatta per i tre casi di Phoenix per ovvi motivi, Nekrohaven per indubbia incisività e The infinity of time and space, a tutti gli effetti unica song effettivamente impegnativa del lotto, per i suoi significativi cambi di ritmo.

Indiscutibilmente ci troviamo innanzi ad un nuovo cambio di pelle dei Satyricon, che mette sul piatto tante buone idee eppure non le riveste quasi mai di una forma canzone pienamente convincente. Il genio di Satyr non è per nulla morto, tuttavia non gli farebbe male scendere dal piedistallo e iniziare a pensare che le buone idee non bastano a fare un buon disco. I miglioramenti rispetto a The age of nero sono evidenti. I fan si divideranno tra chi osannerà questo disco come la resurrezione di una delle colonne portanti della musica estrema scandinava ed altri che non volgeranno neppure lo sguardo a questo album. Cercando di mantenere uno sguardo distaccato, impassibile e freddo come la musica che ci si trova a descrivere, il segno di ripresa è innegabile, l’augurio è che i nostri continuino su questa via, rendendo più coinvolgente quanto di buono ascoltato in questi cinquantuno minuti. Viene dunque il dilemma decisivo, la scelta tanto banale quanto atroce di relegare questo disco tra i sommersi dal songwriting piatto o tra i salvati dalla creatività sempre viva. In questo momento però giunge alla memoria, non cerrcato e non invocato, il ricordo dell’ultimo disco dei Rotting Christ, uscito pochi mesi or sono, a tutti gli effetti un ottimo esempio di disco dalle molte influenze, elitario eppure basato su riff semplici. E il dubbio così atroce non è più. 


Tiziano Vlkodlak Marasco

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