Recensione: Seal the Deal & Let’s Boogie

Di Andrea Poletti - 23 Giugno 2016 - 0:07
Seal the Deal & Let’s Boogie
Band: Volbeat
Etichetta:
Genere: Alternative Metal 
Anno: 2016
Nazione:
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50

PREAMBOLO

Nelle settimane passate, mentre ascoltavo il disco ho effettuato qualche viaggio per questioni lavorative, ho incontrato molteplici persone con le quali oltre lavorare ho scambiato chiacchiere su ogni argomento possibile. Ogni volta che il momento risultava propizio la frase che pronunciavo era sempre “Dai metto su un pò di musica”, nessuno ha mai rifiutato. Ogni singola volta i Volbeat e il loro sesto album “Seal the Deal & Let’s Boogie” riempiva la stanza; un test, una sfida, che a fine ascolto ha portato ad una risposta univoca: “Si ascoltano, bravini ma sono mosci, chi sono?”

LA RECENSIONE

L’hype dietro i Volbeat è probabilmente paragonabile al quarto mistero di Fatima; una scalata verso il successo che non vede fine sin da quando, qualche anno addietro, “Guitar Gangsters &Cadillac Blood” sancì il loro status di “The new Big Thing” nel grande calderone del rock internazionale. Certamente da quel 2008 di acqua sotto i ponti n’è passata in quantità, quella tendenza che vedeva i brani districarsi tra un rock violento infarcito di tinte pseudo punk, con i regimi del motore al massimo, ha lasciato man mano spazio ad un sound sempre più orecchiabile tendente al melodic punk-rock da classifica. L’ingresso in pianta stabile dell’ex Anthrax Rob Caggiano, con il precedente “Outlaw Gentleman & Shady Ladies”, ha confermato definitivamente quell’idea che latitava sorgnona nelle retrovie: i Volbeat non sono più gli stessi e hanno venduto l’anima al diavolo. Il diavolo non veste prada in questo caso specifico, ma certamente gli ha consentito comprarsi qualche vestito in più con tutti i guadagni realizzati dalla promozione a livello globale. In parole semplici: sono diventati banali e generalizzati sino a non sapere né di carne né di pesce. Questo nuovo parto discografico denominato “Seal the Deal & Let’s Boogie” ha dalla sua quale lato positivo? Una copertina molto ben realizzata a livello artistico, tutto il resto è noia. Duro ma sincero.

Tredici canzoni che comportano il nostro termine di paragone su quest’album, a dispetto delle diciassette che vengono incluse nell’edizione deluxe reperibile nei negozi, per un totale di cinquantatre minuti tutti da vivere (ironico). Facciamo un paragone superficiale ma calzante, tanto la sostanza non cambia di molto, se un’italiano non sa cucinare la pasta in bianco lo si capisce sia che faccia da mangiare per se stesso che per una tavolata intera; che voglio dire? Che puoi scrivere tre canzoni o anche duecento ma se non sai scrivere a priori, o hai perso la vena compositiva, evita di mettercitici diietro, fai più bella figura. Potremmo sancire senza mezzi termini che di Volbeat oggi sono alla pari di tutti quei gruppetti inutili, che cercano di fare breccia sui teenager, ma che col metal e con i metallari vecchio stile non hanno nulla da spartire. Razionalmente dovrebbero essere la nemesi del concetto di metal, dove la sincerità sta alla base di ogni canzoni, qui di sincerità v’è ben poca roba. Sin dall’iniziale “The Devil’s Bleeding Crown” riusciamo a percepire quell’alto tasso di ammorbidimento e di “plasticoso” (ma i Volbeat sono petalosi? NdR) che da qui in avanti andrà piano piano ad inculcarsi nella mente, lasciando questo album al vento per disperderlo nei secoli dei secoli amen. Tutte le canzoni funzionano bene, lungi da contestare la caparbietà dei nostri sotto l’aspetto prettamente compositivo, ma sono tutte composizioni già sentite e risentite nel passato, al limite del riciclato. Certamente dal vivo offro la loro verve goliardica e intrattenitrice ma nel complesso, non si riesce a scorgere uno sforzo che vada al di là del compitino svolto senza entusiasmo. Il 4/4 classico, la struttura ritornello bridge ritornello e una durata dei brani che per il 90% risiede entro i 4 minuti da top of pop offre poche speranze all’innovazine e al non artificiale. Tra i brani migliori possiamo citare il duetto con Danko Jones su “Black Rose”, “Goodbye Forever”, la Titletrack “Seal the Deal” e la conclusiva “The Loa’s Crossroad” ma su tutto il resto prevale la banalità più superficiale, alla pari dei Blink 182 moderni. Ascoltare come controprova la semi-ballad “Let it Burn”, “Mary Jane Kelly” e la terrificante “You Will Know” che ha dalla sua un assolo discretamente valido, per confermare quanta poca sia l’ispirazione a livello globale. L’andamento più vicino al punk-rock aggiunto ad un costante immediatezza dei pezzi, con la prodzione iperpompata e finemente artificiosa offrono sì un motivo per cantarsele e ricantarsele in macchina all’aperto, magari mentre ci si fa un birra in compagnia, ma noi dobbiamo giudicare il tutto su quella che è la base di moltissime variabili al di fuori della serata in camporella. Qualche minuto di pubblicità grazie.

POST PREAMBOLO

Dicevamo dunque che diverse persone, dai gusti differenti, hanno ascoltato senza nemmeno sapere chi fossero i Volbeat; risultato finale non molto soddisfacente a quanto pare. Credo dunque che il sottoscritto non sia l’unico che ad oggi trova completamente sovradimensionato il successo dei nostri, quasi inspiegabilmente, per avere la forza a fine ascolto solamente di posizionarsi un immenso punto interrogativo in testa. Le domande del pensatore cronico partono senza freno. Alla fine, avremo culture e parlate differenti, ma la musica ci unisce sempre nella buona e nella cattiva sorte.

ENDING THEMES

Seal the Deal & Let’s Boogie” è fondamentalmente inutile, un concentrato di idee rubate di qua e di la che portano in dote pochi fattori positivi. Ci rifletto un poco poi vi mando un messaggio… Ovviamente in molti, sopratutto in sede live, andranno pazzi con i Volbeat e si divertiranno a fine concerto, ma onestamente non c’è nulla di vero e di ricercato in tutto questo. Un prodotto commerciale che in quanto tale troveremo a prezzo scontato tra qualche mese nelle distro internazionali e in ogni Mediaworld Italiano. Per molti esterni, che vedono nei metallari solamente un popolo becero e senza logica d’esisitere, ma sotto sotto quasi tutti hanno del gusto con una sensibilità invidiabile a molte altre musiche globali, io fiero metlahead dalla nascita, come molti, comprendo quando qualcosa sà di tappo. 

Un’altra bottiglia grazie, non la segni nemmeno sul conto.

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