Recensione: Seaweed

Di Stefano Burini - 13 Marzo 2017 - 9:00
Seaweed
Etichetta:
Genere: Sludge 
Anno: 2017
Nazione:
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70

I Demonic Death Judge, a dispetto di un monicker forse più indicato per una band black metal, sono un quartetto finlandese composto da Jaakko Heinonen alla voce, Toni Raukola alle chitarre, Eetu Lehtinen al basso e Lauri Pikka alla batteria.

Pur non potendo essere considerati degli innovatori assoluti, l’invidiabile padronanza di mezzi tecnici ed espressivi consente loro di proporre musica gustosa per tutti gli appassionati del genere e anzi di azzardare nel recentissimo “Seaweed” un salto evolutivo nient’affatto banale dallo stoner doom dei precedenti lavori verso un qualcosa di maggiormente caratteristico, a mezza via tra sludge, stoner e inattese tentazioni progressive.

Le otto canzoni in scaletta si sviluppano, come anticipato, lungo le coordinate di uno stoner/sludge fortemente guitar-oriented, nel quale la parte del leone la fanno i riffoni grassi, cadenzati e perpetui dell’instancabile Toni Raukola, benissimo assecondati da basso e batteria e coronati dal growl soffocato e lacerante di Jaakko Heinonen.

L’iniziale “Taxbear”, “Seaweed” e soprattutto l’esagerata “Heavy Chase” – nella quale risulta perfettamente udibile la pesantezza di mano di Raukola alla sei corde – rappresentano due perfetti esempi dell’anima più groove dei finlandesi cui si contrappongono alla grandissima le più atmosferiche ““Pure Cold” (forse la migliore del lotto, a pari merito con “Heavy Chase, Ndr), “Saturnday” e “Peninkulma”, brani dal taglio più progressivo nei quali i DDJ riescono ad offrire interessanti suggestioni marine/abissali.

Mancano all’appello due sole canzoni: “Backwoods” e il pertinente intermezzo strumentale “Cavity”, entrambe interessanti ma forse un filo meno efficaci delle restanti tracce, pur risultando ampiamente gradevoli e al di sopra della sufficienza.

Come già anticipato, band come i Demonic Death Judge non rivoluzioneranno il mondo del metal ma fanno il loro sporco lavoro ed è per questo che meritano di essere sostenute.

Stefano Burini

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