Recensione: See You On The Dark Side

Di Fabio Vellata - 14 Settembre 2017 - 0:01
See You On The Dark Side
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2017
Nazione:
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82

“Processo di maturazione”.
Quante volte abbiamo sentito e letto questa terminologia, magari usata a sproposito, utile però nel descrivere il percorso intrapreso da un qualsivoglia soggetto in un qualche ambito che, partito da esordi incoraggianti, ha poi condotto a risultati più o meno convincenti ed efficaci.

Un modo sfruttato molto spesso nel riconoscere la crescita artistica soprattutto in ambito musicale, allorquando ad essere presa in considerazione è una band promettente, di belle speranze che, dopo qualche anno trascorso a sgomitare nell’underground, riesce a mettere il “naso fuori”, siglando un contratto importante e mandando a regime quella che può essere considerata la testimonianza migliore di quanto prodotto sino a quel momento.

Ecco. Tutta una serie di preamboli per ridurre la faccenda ad un nome ben preciso e ad una band che avevamo avuto il piacere di conoscere al debutto qualche anno fa.
Hell in The Club: se il proverbiale processo di maturazione potesse essere misurato in base alla crescita d’importanza della label di supporto, potremmo dire che sì, gli Hell in The Club si sono evoluti, sono maturati e sono, in qualche modo, “arrivati”.
Del resto, un’etichetta come Frontiers Music, da considerarsi ormai alla stregua di una major per il genere, non si accorgerebbe di una “piccola” band piemontese, dedita a del sordido ed alcolico hard rock se, nel concreto, non ci fosse della grande, pesante ed inequivocabile sostanza alla base.

Che poi, lo stile ed i punti di riferimento rimangono dichiaratamente sempre quelli: tanto per dirla alla Lavoisier, “nulla si perde, nulla si crea”.
Hardcore Superstar, Crazy Lixx, Mötley Crüe, Crashdiet… in buona sostanza, il tipico e classicissimo movimento hard che spazia dal boulevard losangelino vecchia maniera, sino alle bettole fumose di Stoccolma, abbracciando in un ipotetico trait d’union le scene europee ed americane, per trasportarle un po’ più fuori zona, verso l’alessandrino.

Eppure, definire gli Hell in The Club “una band simile ad altre” risulta negli ultimi tempi piuttosto complicato, giacché gli spunti e le idee che via-via vengono miscelati alla radice di tradizionale e sardonico hard rock, sono sempre più notevoli e di spessore. Giusto per rimanere in tema di evoluzione e maturazione, valgano, ad esempio, le spericolate derive swing di “I Wanna Swing (appunto!) Like Peter Parker”, piuttosto che la teatrale drammaticità della conclusiva “A Crowded Room”, o il taglio a tratti darkeggiante – un po’ alla The Cure – della sulfurea “Withered in Venice”.
Frammenti indicativi di come, gratta-gratta, sotto alle sembianze di band caciarona ed avvinazzata si nascondano artisti a tutto tondo, per nulla sprovveduti quando si tratta di mettere in pista una composizione che sappia andare a pescare, almeno in parte, nell’ignoto mare dell’originalità.

Tuttavia continuiamo ad apprezzarli in modo convinto e sperticato soprattutto quando le coordinate si mantengono sui versanti classici e ben riconoscibili, caricati d’ironia e piacevoli voglie melodiche: la divertente “Houston We Got No Money” è pura ricreazione, così come “A Memory, a Melody”, “We Are on Fire” e “Bite of The Tongue”. Bello poi, il rovente southern di “Little Toy Soldier”.
Applausi a scena aperta con tanto di ovazione corale meritano inoltre la defleppardiana “Showtime”, tra i momenti più belli dell’intero cd, ed il rock n’roll spensierato di “The Misfit” e “The Phantom Punch” (grande coro!), altri brani in cui è percepibile una cura dei dettagli e del songwriting che va molto al di là delle semplici apparenze.

Concludendo da dove siamo partiti, l’ascolto prolungato e ripetuto di “See You on the Dark Side” ci conforta, offrendo evidenti riprove di quanto riferito in apertura.
Un songwrting che non copia ma elabora in modo personale, è alla base di un prodotto che si appalesa quale capitolo migliore della sin qui esigua discografia degli Hell in the Club, band in costante crescita che pare, davvero, essere giunta ad un punto cruciale della propria “maturazione”.

Una label di respiro mondiale ed un album in cui non c’è un solo pezzo debole.
Non manca più nulla per stare là in cima…

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