Recensione: Serenade

Di Fabio Vellata - 30 Ottobre 2011 - 0:00
Serenade
Band: White Widdow
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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78

Giovani ed ardimentosi, in giro solo dal 2008 ma già in grado di mettere in circolazione qualcosa d’interessante, gli australiani White Widdow si riaffacciano sulle scene ad un anno esatto di distanza dall’ottimo esordio, con un secondo album che può identificarsi per termini, qualità e stile, come una propaggine naturale del precedente capitolo.

Atmosfere e connotazioni melodiche, mostrano ancora una volta una profonda infatuazione per tutto ciò che ha rappresentato il circuito dell’aor targato anni ottanta, confermando in blocco le impressioni maturate giusto dodici mesi fa nel fare la conoscenza di Jules Millis e dei suoi compari. Un buonissimo gruppo, capace di immedesimarsi in maniera credibile in quella che è stata un’epoca irripetibile per il rock melodico e di rintracciare sensazioni che, pur se ammantate da un alone “vintage” palese ed ingombrante, non potranno mai passare inosservate o risultare sgradevoli a chi ne apprezza i tratti distintivi. Oltre ad una serie di canzoni che proprio come accaduto per l’omonimo debut, trascendono l’effetto deja vu indotto dalla consueta “originalità zero” e riescono nella titanica impresa di reggere il confronto con le fonti ispiratrici senza rimanerne stritolate, regalando un ascolto anche stavolta condito da situazioni leggere, vivaci e prettamente estive.

Avevamo parlato di Whiste Sister, Survivor, Dokken, Touch, Aviator e Treat, insieme a Bon Jovi e Van Halen. Tutti nomi che occorre ribadire anche nella definizione del nuovo “Serenade”, disco che potrebbe onestamente essere descritto con le stesse identiche parole utilizzate nel 2010 e che pertanto, non sembra richiedere particolari sforzi nell’analisi dei suoi contenuti specifici.
Quello che era piaciuto nel 2010, è proprio quello che garba anche oggi: armonie semplici, per nulla impegnative e di facile presa, qualche arrangiamento da airplay radiofonico ed una formula che cattura in un istante e non necessita di molti ascolti per essere apprezzata.
Nel voler tuttavia dar adito ad un minimo di pignoleria aggiuntiva, qualche piccola “sfumatura” sulla resa dei brani andrebbe comunque evidenziata. “Serenade”, infatti, si prospetta un po’ come un album qualitativamente “spaccato” in due: una prima parte composta da tracce di qualità sopraffina in cui reperire tutto il feeling dei migliori eighties, ed una seconda in cui, fatto salvo un valore compositivo comunque più che buono, si percepisce qualche leggero affanno, soprattutto laddove l’idea di ripetitività nei ritornelli diviene qualcosa in più di un’intuizione effimera e passeggera.

È così che il trittico iniziale “Cry Wolf”, “Strangers In The Night” e “Do You Remember” offre pieno sfogo alle fantasie più spericolate d’ogni nostalgico, ricollocandosi idealmente in uno spazio temporale compreso in un anno a scelta tra il 1981 ed il 1986. Mentre le seguenti “Reckless Nights” e “How Far I Run” pongono ancora più in mostra l’elegante miscela tra il rock scandinavo dei Treat e gli inserti tastieristici di Van Halen (quelli di 1984), Touch e Dokken, esaltando un songwriting non troppo elaborato ma estremamente efficace nel centrare il ritornello ultra melodico da arena.
Un profilo stilistico ad hoc per l’obiettivo, che prosegue senza modifiche anche nei pezzi restanti ma sul quale pare, di tanto in tanto, abbattersi un po’ più di staticità nei cori, che così vengono talvolta trascinati troppo a lungo e resi un pizzico ripetitivi. “Show Your Cards”, “Serenade”, “Mistake” e “Love Won’t Wait”, pur conservando un che di meravigliosamente romantico nel voler rimanere ancorati agli eighties, perdono qualche punto nel confronto con i brani posti più in alto in scaletta. Senza di certo deludere, ma lasciando trasparire un pelo di brillantezza in meno.
A mettere ancora le cose nella direzione dell’AOR di miglior fattura arriva in ogni modo la deliziosa “Patiently”, traccia che proprio con il chorus centrale squarcia letteralmente il tempo, proiettando la mente in un dorato sogno anni ottanta in cui respirare le atmosfere dai contorni “glitterati” tipici delle ballad di quell’epoca.
Un alone di spensierata e serena positività aleggia in ogni dove, racchiudendo in un involucro di emozioni ovattate un’essenza quasi ingenua nel proprio voler apparire a tutti i costi, retrò ed antiquata. Un approccio che ai più prosaici, potrà tuttavia odorare un po’ di ruffiano e poco spontaneo, seppur dagli esiti sempre più che gradevoli.

Poco da aggiungere quindi. “Serenade” è un disco che, come il predecessore, trascura ogni velleità innovativa per affidarsi ad una ricetta consolidata, garantita e per certi versi, quasi infallibile. Con risultati che si propongono esattamente come la più lineare delle conferme: anche questa volta un album che sa rendersi gradevole, pensato quasi ad esclusivo uso degli appassionati di suoni ottantiani che – inutile sottolinearlo – non tarderanno ad apprezzarne i buoni valori, senza sottilizzare troppo su aspetti di minor significato come le innumerevoli “somiglianze” e l’evidente ed ostentata mancanza d’originalità di cui i White Widdow paiono quasi andar fieri.

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Tracklist:

01.    Cry Wolf
02.    Strangers In The Night
03.    Do You Remember
04.    Reckless Nights
05.    How Far I Run
06.    Serenade
07.    Show Your Cards
08.    Mistake
09.    Patiently
10.    Love Won’t Wait

Line Up:

Jules Millis – Voce
Enzo Almanzi – Chitarra
Trent Wilson – Basso
Xavier Millis – Tastiere
Jim Naish – Batteria

 

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