Recensione: Servus

Di Andrea Poletti - 16 Febbraio 2017 - 2:22
Servus
Band: Bathsheba
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2017
Nazione:
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81

A tutti è capitato di non riuscire a descrivere un avvenimento, un episodio o un solo istante rimanendo senza parole, magari chinando la testa e perdondo lo sguardo nel vuoto. Ascoltando “Servus“, prima opera in studio dei belgi Bathsheba, diventa impossibile riuscire a descrivere in maniera analitica e razionale ciò che accade senza lasciarsi trasportare dalle emozioni in tutto il calderone che ribolle, una sfida verso la gravità interiore dell’involontario salto nel buio delle emozioni. Attratto da una copertina così intrigante quanto enigmatica, mi butto a capofitto, mi sento invaso, aggrovigliato e inzio a viaggiare lontano; doom, quello vero, intenso e denso di patologie sociali che necessitano forzatamente di essere raccontate in forma canzone. In sintesi, una delle più belle sorprese di questo inzio anno, quel disco che per gli amanti del genere diventarà molto probabilmente una droga da assumere in dosi massicce periodicamente.

C’è un filo comune che viene a nascere lungo ognuna delle tracce qui presenti, come se a dispetto del feeling del singolo brano l’aria respirata lungo i quarantacinque minuti sia sinistra, pesante e oscura a tal punto che entra dentro e diventa parte del vivere stesso. Un’invocazione, il riff su quella chitarra grassa con il mid-tempo della batteria ci introduce al pirmo passo nel mondo di “Servus” attraverso ‘Of Fire’ dove la decadente voce di Michelle è carezza e pugno contemporaneamente, screaming e pulito attraverso un gioco di atonali visioni lugubre e indefinite. ‘Ain Soph’ vede arrivare il lato più black, l’inizio terremotate e un blast beat ci incutono timore prima che il doom torni a divorare le interiora grazie anche alla sessione centrale con il sax e un basso abissale; un brano che diventa la dimostrazione di quanto le sfumature e le variazioni dentro questo disco non sono per nulla prevedibili, una colonna sonora per solitari abbandonati. La terza creazione prende il nome di ‘Manifest’ ed è la canzone più lunga del lotto, con oltre dieci minuti riesce nell’arduo compito di non annoiare e stancare con questo incede soffocante e monocorde. La scelta dell’armonizzazione che va in netto contrasto con la produzione così grave e maligna è quanto di più armonioso si possa ricercare oggigiorno, una cura nei dettagli al limite del maniacale. ‘Demon 13’ è il singolo apripista, la traccia ipoteticamente più accessibile del disco, il brano più tradizionale e leggermente meno personale rispetto alle altre sorelle ma non per questo privo di fascino, echi degli Electric Wizard entrano prepotenti e la deliziosa Michelle (sempre lei) riesce a diventare la strega che ci racconta le linee guida dell’inferno; che sapore ha l’incontro con i tuoi stessi demoni? La penultima ‘The Sleepless Gods’ prende invece ispirazione dai Cathedral di un tempo per andare a soggiornare in questa rituale marcia funebre dove un lavoro pregievole di batteria riesce a aumentare la dinamicità del pezzo; prestando attenzione alla rigidità della chitarra, in netto contrasto con le pelli, è possibile percepire uno stordimento, una fitta in testa per crollare e lasciarsi andare nei mari infiniti. Arriviamo ai titoli di coda, mancano gli ultimi otto minuti di ‘I At the End of Everything’ per entrare in contatto in via definitiva con il respiro del corpo, il battito del cuore rallenta ed una struttura metafisica, quanto mai vincente, si inerpica come l’edera dentro le meningi. Cosa sta accadendo? La linea compositiva non si discosta molto dai precedenti risultati ma diventa quell’intenso destino dal quale non si può scappare che ci saluta; indescrivibile e di una potenza mastodontica, l’invocazione inziale ritorna come a chiudre il cerchio e crolliamo definitivamente nel silenzio. Arrivano domande senza risposta a termine della corsa, non è di facile appiglio come uscita e se in apparenza potrebbe deludere, andando avanti ascolto dopo ascolto entra in circolo come l’alchool nel sangue e trovargli un difetto risulta pressochè arduo.

C’è una strada che conduce verso l’orizzonte, una linea divisa tra il giallo e l’ocra, una variante cromatica del silenzio con sfumature nell’indescrivibile; in quell’angolo di mondo, dentro una piccolo posto angusto e rarefatto, si nascondo i Bathsheba. Musica scritta con sincerità dove la violenza, l’amore in ogni sua forma, il rancore e l’assenza di volontà prendono forma in un solo disco; l’occultismo che sgorga dalle canzoni qui presenti serve a ricordarci quanto sia soffisticato e ingannevole il quieto divenire ed il suo mondo alle spalle. Godetevelo, assaporatelo, vivetelo e addentratevi con il dovuto rispetto dentro “Servus”, poichè a dispetto della superficilità che contamina il moderno, questa nuova grande realtà al pirmo tassello ci ricorda che ci sono ancora messaggi da donare alll’umanità. Per iniziare quest’anno nel migliore dei modi avevamo bisogno di un gruppo così, grazie.

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