Recensione: Shadow King

Di Andrea Loi - 7 Luglio 2007 - 0:00
Shadow King
Band: Shadow King
Etichetta:
Genere:
Anno: 1991
Nazione:
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85

E’ opinione largamente diffusa e consolidata che gli inizi degli anni novanta siano stati il testamento artistico di certo hard rock melodico che appena qualche anno prima furoreggiava nelle charts di mezzo mondo, con esisti commerciali a dir poco irrepitibili.
Il 1991, anno della “discordia” (vera o presunta che sia) fu invece, al contrario di quanto possano pensare in molti, ricco di grandi e sfavillanti produzioni che ebbero una sola defaillance: quella di non essere supportate in maniera adeguata da molti media che vedevano in altre espressioni musicali il nuovo ”Eldorado” da sfruttare commercialmente.
Senza scomodare i big act che rilasciarono quello stesso anno dischi che a posteriori saranno veri e propri punti di riferimento per milioni di fans negli anni a venire, ci limitiamo a ricordare i debutti dei Tall Stories, capitanati da Steve Augeri, dei The Storm (Smith, Valory, e Rolie degli stessi Journey ), e di questi Shadow King, che rappresentarono egregie alternative a quello che questi stessi artisti suonavano con le band madri.

Fu Lou Gramm, da poco uscito dai leggendari Foreigner (rientrando appena un anno dopo, a seguito dell’ insuccesso commerciale di “Unusual Heat” ), pilastro fondamentale di un certo hard/aor con i quali aveva raggiunto l’olimpo con successi artistici e di vendite, (andando negli USA, oltre ogni immaginazione), a dar vita al progetto Shadow King, band che prese forma in maniera improvvisa e si sciolse, con molti rimpianti, in modo altrettanto repentino.
Le previsioni comunque, va detto, non erano delle più rosee: la formazione passò tra l’altro alla storia, per aver suonato un solo concerto a Londra.
Non bastò neppure avere tra i ranghi un certo Vivian Campbell (pronto per entrare nei Def Leppard dopo la prematura scomparsa di Steve Clark) che, pur con il “freno a mano tirato” (complice lo stesso Gramm, ma soprattutto, il tutto fare Bruce Turgon che suona le chitarra ritmica pur non comparendo nella line-up ufficiale) fa la sua bella figura contribuendo a regalarci un album che entra di diritto tra le migliori cose sentite in ambito hard-oriented negli ultimi vent’ anni: graffiante, fresco, energico, rabbioso e con una componente melodica che contribuisce a creare un’ amalgama raramente concessa a molti artisti, considerata anche l’estemporaneità del project e che mai, come in questo caso, le tante individualità presenti erano prettamente “di passaggio” a favore di “priorità artistiche” più impellenti; mettiamoci pure la produzione azzeccata di Keith Olsen, appena reduce dai suoi impegni su “Crazy World” degli Scorpions, e il quadro è completo e pieno.
Ma pieno di rammarico purtroppo: infatti, l ‘ avventura che già nel booklet del cd -completamente in bianco e nero- lasciava presuporre tristi presagi, non ebbe seguito.

Re certamente, ma dell’ombra e solo per una notte verrebbe da pensare: tuttavia se il prezzo da pagare per un album di rara bellezza è questo, appare in fondo equo, lasciando in eredità dieci perle di assoluta lucentezza che vanno a incastonarsi perfettamente in un’ immaginaria corona propria solo dei sovrani.

L’ opener “What Would it take” è la prova tangibile di come si riesca a coniugare un songwriting raffinatissimo con arrangiamenti essenziali e diretti, dove a troneggiare sono sempre e comunque le corde vocali di “Re” Lou Gramm, poche altre volte così in forma nella sua lunga carriera artistica: accantonata la vena malinconica, quasi un marchio di fabbrica coi Foreigner, solleva il volume della sua voce con fierezza e rabbia e senza un attimo di tregua.
Una dopo l’ altra, arrivano “Anythime Anywhere”, “Once upon a time”, “I want you” e la stupenda “Boy” in grado di sprigionare un grande feeling e appassionare anche frange di ascoltatori meno avezzi a sonorità easy-listening.
Il platter è ben calibrato e se non poteva mancare la ballad strappalacrime, intitolata “Don’t Even Know I’m Alive” (forse la song più vicina alle partiture e alla scuola Foreigner), possiamo tuttavia affermare che l’ intero disco non ha momenti di stanca o di calo emotivo: “This heart of stone”, vicina a un certo hair metal è il preludio agli anthem “Danger In The Dance Of Love” e “No Man’s Land” classificabili su territori di estrazione AOR ma non prive certamente di quella “carica hard” vero comune denominatore di tutto l’ album.
L’ ipnotica e conclusiva “Russia”( titolo molto di moda in quell’ inizio di decade…) quasi bisbigliata e ad alto tasso emotivo, è un’ ideale conclusione, quasi come una sorta di “contrappasso” alla carica energetica di un disco forse da troppi dimenticato, che rimane indubbiamente tra le vette artistiche del periodo.

Peccato non sia stato pubblicato un paio di anni prima, avrebbe beneficiato di una miglior sorte e di dati di vendita certamente più notevoli.
Ma evidentemente il destino decise diversamente per questo ottimo album, che ancora oggi brama vendetta e non attende altro che di essere riscoperto dagli amanti di tale tipo di sonorità.

Tracklist :

01. What Would It Take

02. Anytime, Anywhere
03. Once Upon A Time
04. Don’t Even Know I’m Alive
05. Boy
06. I Want You
07. This Heart Of Stone
08. Danger In The Dance Of Love
09. No Man’s Land
10. Russia

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