Recensione: Shadow Work

Di Simone Volponi - 26 Ottobre 2018 - 0:01
Shadow Work
Band: Warrel Dane
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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80

Il 13 dicembre 2017 Warrel Dane è morto d’infarto durante le registrazioni del suo secondo album da solista a San Paolo, in Brasile. Lo shock per l’improvvisa (per quanto non imprevedibile visto i gravi problemi con l’alcol) fine della storica voce di Nevermore Sanctuary ha scosso il mondo del metal e posto molte domande su quello che andava fatto. Perché del materiale pronto c’era, altro era fermo in attesa di essere perfezionato, c’era un progetto, l’ultimo di una voce unica e tanto amata, che poteva e doveva essere portato a termine.
Dopo una legittima attesa, la Century Media ha dato il via a procedere e i ragazzi brasiliani che formavano la band solista di Warrel hanno messo a punto la produzione di “Shadow Work“. Sono state utilizzate tutte le parti vocali registrate fino all’ultimo giorno di vita del cantante, tutti i demo, tutta la fase di pre-produzione è stata scavata a fondo e assemblata in 40 minuti di musica con un risultato sorprendente. Perché “Shadow Work” è davvero un signor album, così cupo, oscuro, denso di un’aurea tragica che mette in soggezione.

L’inizio spiazza, in quanto “Ethereal Blessing” è una breve intro basata su un suono etnico che coglie l’atmosfera del contesto in cui Warrel Dane si trovava, e la sua voce intona un canto per l’appunto etereo ma già pieno della sua tipica disperazione. L’esplosione di “Madam Satan” avviene con un riff vorticoso e uno strato sonoro progressive-thrash che rimanda subito ai Nevermore. Il timbro vocale è quello che ben conosciamo, spremuto tra parti imperiose, altre sussurrate, altre addirittura in growl, e il refrain drammatico riporta al periodo “Enemies Of Reality”. C’è un’oscurità pregna di maledizione e la potenza del pezzo è davvero notevole, con la band che ci dà dentro chiudendo l’ascoltatore dentro una gabbia compressa di note che non danno respiro.
As Fast As The Others”, uno dei singoli che hanno preceduto l’uscita dell’album, offre un Warrel Dane come sempre intenso, capace di ringhiare le strofe per poi abbandonarsi a un accorato richiamo al sentimento, in questo caso l’amicizia, sempre avvolto da quella bruma di malinconia che non è mai riuscito a scrollarsi di dosso. Anche qui abbiamo un bellissima melodia nel refrain che non avrebbe sfigurato per esempio su “Dead Heart In A Dead World”.
La mazzata thrash della titletrack conferma come l’atmosfera sia strana, claustrofobica, quasi come se ogni secondo si giocasse sul filo del rasoio. Una premonizione di fine che dà una spinta urgente, interpretata da Dane direttamente dalle profondità delle proprie ombre interiori, senza abbandonare mai la melodia che ha reso tipica tutta la sua carriera

Johnny Moraes e Thiago Oliveira alle chitarre si adoperano nella giusta maniera, anche in fase solista. Non sono dei fenomeni, non sono al livello di un Jeff Loomis, ma la loro prova in generale rende onore alle composizioni, e lo stesso si può dire della triturante sezione ritmica formata da Fabio Carito (basso) e Marcus Dotta (batteria). Così anche la cover dei The Cure “The Hanging Garden” viene trasfigurata da una foga strumentale rabbiosa e pestante, tappeto ideale per il canto dark di Warrel Dane. La consapevolezza di trovarsi nelle orecchie le ultime stille vitali di un artista ci fa assaporare la sua classe e particolarità come forse mai prima era successo, mettendoci davanti al fatto compiuto che interpreti di razza così se ne trovano davvero pochi.
Rain” si apre con il violoncello nella pioggia, per poi mostrarsi come una ballad davvero struggente che fotografa la poetica dannata del vocalist nelle strofe di poche parole e nell’ennesimo ritornello azzeccato, marchiato a fuoco. Forse qui si sente di più la costruzione postuma della traccia, allungata dall’assolo poco connesso alla trama generale, per una disarmonia che comunque non disturba quando la pioggia porta via tutto…
Il violoncello, unito ai cori atmosferici, si ripresenta anche all’inizio della maestosa “Mother Is The Word For God”, un pezzo sacrale dove la voce di Warrel Dane si contorce sopra il tappeto di chitarra acustica, prima che il pezzo deflagri in un rabbioso e apocalittico sermone proveniente dagli intestini neri di una disperazione senza fine. Un lungo, devastante, disarticolato, corrosivo e ottenebrante finale che mette il sigillo all’ascolto sulle note dolenti dei violoncelli.

Shadow Work” è un disco intenso e valido, superiore al primo capitolo solista risalente a dieci anni fa. Ovviamente è anche e soprattutto doloroso, c’è quell’atmosfera nera e straziante che ti prende alla gola forte del suo significato. Warrel Dane è stato divorato dai demoni che per una vita lo hanno ghermito e ispirato, è stata una voce di quelle che si riconoscono in un attimo, forse non celebrata a dovere come avvenuto per altri nomi portati via dal destino anche tra coloro che come lui hanno avuto la sventura di una morte precoce. Eventuali e probabili pubblicazioni future, fatte magari di materiale live o ultimi rimasugli pescati nei cassetti, finiranno con lo sminuire il valore di questo momento. Quest’ultimo album, quest’ultima testimonianza, è davvero il modo migliore per celebrarlo, considerando che nei fatti porta in dote la vena ispirata di un uomo artisticamente in gran forma. Si può guardare a “Shadow Work” come al velo perfetto per avvolgere per sempre il ricordo di Warrel Dane.

 

 

 

Simone Volponi

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