Recensione: ShadowKeep

Di Stefano Usardi - 21 Aprile 2018 - 10:00
ShadowKeep
Band: ShadowKeep
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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80

Dieci anni. Esattamente dieci anni sono serviti ai britannici ShadowKeep per tornare alla ribalta dopo il loro ultimo full lenght. Quando ormai tutti li davano per spacciati, fagocitati nel maelström dell’oblio senza fine come troppi loro colleghi, cosa fanno invece i nostri? Presto detto: piazzano il signor James Rivera dietro al microfono e non solo si riaffacciano sul mondo con un album nuovo nuovo, ma lo fanno sfondando la porta principale con una sonora pedata in slow motion modello “Questa è Sparta!”. Eh, sì, signori miei: il loro quarto album, “ShadowKeep”, è una bella bombetta. La proposta dei nostri si irrobustisce, dando vita a un heavy metal muscolare, bellicoso e ciononostante anche assai stratificato (l’anima progressive del gruppo si è solo apparentemente affievolita, sotto la superficie si continuano a macinare cambi di tempo e parti di chitarra contorte e carismatiche), carico di quell’arroganza che, se abbinata alla perizia esecutiva e ad un certo gusto per le composizioni, può davvero fare la differenza. Il gruppo è in palla, compatto come una falange macedone, e dispensa bastonate per tutta l’oretta scarsa di “ShadowKeep”: come sempre, quando si parla del gruppo britannico, il fulcro di tutto si rivela essere il gran lavoro delle chitarre, che con tocchi ben dosati passano dalla solennità all’impeto battagliero nello spazio di una canzone e donano a ogni traccia personalità e veemenza; parimenti, la sezione ritmica si dimostra possente e aggressiva, martellando senza pietà e scandendo imperiosamente l’avanzata del gruppo, amalgamandosi molto bene con la coppia d’asce per creare una bella onda sonora. E Rivera, chiederete voi? Beh, il signor Giacomo, 58 anni appena compiuti, si dimostra il solito leone e somministra ruggiti ad ogni piè sospinto, caricando le canzoni con la sua timbrica acida e guerrafondaia passando da strepiti abrasivi a brontolii minacciosi, e naturalmente coprendo tutte le sfumature che stanno nel mezzo. A voler ben vedere non mi ha del tutto convinto durante le due brevi ballate, ma a questo ci arriveremo poi.

Lo sciabordio delle onde e un arpeggio disteso aprono “Atlantis”, intro atmosferica d’ordinanza che in un paio di minuti cede il passo alla roboante “Guardian of the Sea”: qui, sopra un tappeto di heavy metal della vecchia scuola, si sviluppa la classica traccia minacciosa ed energica che fa dell’insistenza poderosa il suo  marchio di fabbrica, stemperata solo di tanto in tanto come in occasione del breve assolo. “Flight Across the Sand”, dopo una finta partenza spiraleggiante, procede sulle medesime coordinate ma rallenta i tempi, calcando la mano su una certa inesorabile minacciosità. La canzone, della durata di quasi otto minuti, incede lenta, con incredibile pesantezza, salvo poi pigiare sull’acceleratore nella seconda parte introducendo elementi quasi priestiani nella loro graffiante aggressività e aprendosi infine nella sezione strumentale trionfale e frenetica, che precede il ritorno ai tempi scanditi e poderosi che chiudono il pezzo. “Horse of War” si mantiene su tempi scanditi ma meno asfissianti di “Flight…” – garantiti da una sezione ritmica frizzante – aprendosi a una certa melodia durante l’assolo e buttando lacrime e sangue durante il ritornello dalla pesante impronta anthemica. Con “Little Lion”, la prima quasi-ballata, si rallenta cedendo la scena al Rivera più suadente, diciamo così, sorretto da un arpeggio trasognato ma sottilmente inquieto. A dir la verità la traccia non mi ha affatto entusiasmato per via di una resa finale, a mio avviso, un po’ troppo forzata, ma per fortuna arriva la battagliera “Angels and Omens” a sollevarmi il morale col suo andamento furente e propositivo, i fulminanti cambi d’atmosfera (dettati da una coppia d’asce in grande spolvero) e la costante elettricità che la pervade. Bel pezzo. “Isolation” sembra seguire le stesse indicazioni ma puntando su velocità più contenute, figlie di una sezione ritmica più quadrata e riff concentrici, serpentiformi; la seconda parte della traccia si apre all’insegna di un maggiore pathos, salvo poi cedere la scena al funambolico assolo che prelude il finale. “Never Forgotten”, seconda ballata dell’album, se la cava meglio della sorella – nonostante entrambe condividano una struttura molto simile – forse per via di una prestazione vocale meno forzata, ma a conti fatti mi sento di considerare entrambe le tracce come brani interlocutori o poco più. “The Sword of Damocles”, invece, è una strumentale di poco più di tre minuti e mezzo in cui gli Shadowkeep mettono in mostra le loro doti giocandosi bene le proprie carte, anche se in un paio di punti mi è sembrato che la canzone, comunque molto bella e carica della giusta tensione, perdesse un po’ della sua solidità per cedere al pericolosissimo effetto fusione di assoli. Niente di grave, comunque, visto che la traccia scorre in modo egregio e traghetta l’ascoltatore a “Immortal Drifter”: l’inizio è in sordina, ma in meno di trenta secondi entra in scena il resto del gruppo per confezionare un brano graffiante e solenne e attraversato per tutta la sua durata dall’inarrestabile lavorio delle onnipresenti chitarre, ottimamente sostenute da una batteria puntuale e autoritaria e da un basso che si ritaglia pazientemente il suo spazio. Bella anche la sezione solista che, come al solito, spiana la strada al finale. Chiude “ShadowKeep” la lunga e cadenzata “Minotaur”, canzone dall’atmosfera intimidatoria e carica di quella vena di arroganza che, quando non è troppo sfacciata, fa sempre bene. La traccia saltella tra profumi diversi riportando allo scoperto la componente più progressive del gruppo, senza temere di compiere balzi forse avventati (si veda ad esempio lo stacco, forse un po’ eccessivo, al quarto minuto), e si porta a casa il risultato grazie ad un gran lavoro di tutto il gruppo e a un ottimo utilizzo, a mio avviso, delle melodie, che di volta in volta si fanno solenni, aggressive, sognanti o trionfali.

In definitiva, “ShadowKeep” può essere definito solo come un gran bell’album, grintoso e agguerrito, che mi sento di consigliare a tutti gli appassionati del metal più sanguigno e passionale; ben venga dover aspettare un decennio, se poi il risultato è questo!

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